IX Ipotesi di Corte Sconta
Due incontri fortuiti e fortunati
Nella narrazione abbiamo lasciato i due dell'isola ribelle, di ritorno da una
spiaggia notturna celata ad ogni sguardo irriverente dall'acqua di marea.
E poi la digressione sulle leggi di natura che fanno scorrere in fondo sia i
fiumi che le parole.
Nelle carte della biblioteca piccola della città saggia, si trovano anche altri
frammenti, dettagli.
Di uno anacronistico oltre ogni limite e ragione poi ci sono più di un
riferimento in diverse note, appunti e anche in un breve carteggio tra un
ufficiale ottomano e un pirata che viveva all'epoca delle lettere a Venezia, in
Corte Sconta detta Arcana .
E qui balza all'occhio del lettore più attento una duplice domanda temporale.
I due sono contemporanei a chi legge, Skander Bej (del suo nome non esiste una
univoca dizione, come succede sempre ai miti) che incontreranno nella sua guerra
contro i Turchi è databile al 1400 e rotti e il pirata gentile del secolo appena
terminato.
Per cui occorre uno sforzo di fantasia e fiducia pari almeno a quello impiegato
dal fiume a scavarsi, mutando spesso nel tempo direzione, tracciato, percorso e
forza nella sua corsa verso il mare.
Che è corsa inevitabile, scritta nelle rocce che erano lì solo ad aspettare
Ma tant'è.
Di certo i due amanti passarono a Venezia quell'estate.
Sempre che fosse estate.
Li vediamo camminare sulle ripe dei canali.
Quasi furtivi nel passo, spesso celati da mantelli, come se improvvisamente si
sentissero quasi inseguiti.
Passano da Cannaregio a Dorsoduro nella notte.
Con passo avvicinato e ombra di gigante, stretti a nascondere le sagome e le
ombre.
Vivono in un piccolo albergo nascosto in calle delle Sacchere, all'incrocio con
Fondamenta.
Ma la ricerca dei documenti e della descrizione di quei due incontri lì è cosa
complessa, incrocia molti scritti, topografie, progetti. <br>Per cui, se è
ricostruzione di una vita parallela, la loro, e non romanzo, piccola vivisezione
di sentimento e sensazione, narrando, proporrei di lasciarli lì.
Almeno per una puntata.
Persi tra le calli.
Del loro fortuito incontro con Corto si parlerà dopo, lui tra l’altro, stando ai
verbali dei cronisti, ancora si domanda cose sullo sguardo di lei su quel pirata
galantuomo e del perché lei si fermò a Venezia, quasi fosse necessario uno
stacco, per verificare, a trattare erbe e spezie dall’Oriente con capacità di
antico mercante.
Di quell’incontro veneziano si scriverà, dopo, dopo un piccolo salto avanti
temporale.
Perché i pensieri sono come i documenti.
Dipende dall’ordine in cui vengono riposti nella mente e negli archivi.
Basti per ora sapere che, tra calli, campi e panni poveri stesi a fare da
festone tra le case inclinate sul canale, quattro persone hanno percorso con
passi nella notte la città dove il fiume si fa, con moto misterioso, mare.
Che lui partì, dice la leggenda per una strana guerra solo perché aveva voglia
di battaglie al sole.
E lei lavorò lì, in giorni di non ancora inverno, accumulando piccole fortune in
spezie e piante e essenze rare.
Corto le fu vicino nel districarsi per la città e i suoi mercati.
Trovò un piccolo magazzino a Dorsoduro dove lei passava giornate a comprare e
vendere, scambiare sacchi di iuta e pozioni profumate.
Ci sono, di quel periodo di distacco nel loro viaggio lungo il fiume, alcune
lettere, portate da carovaniere di ambra russa e alcool di patate, un telegramma
portato da un ufficiale turco disertore in cui si comunicava che nell’assedio di
Kruje la sorella di Skander, (a Venezia loro lo conobbero col nome di Giorgio
Castriota col quale lui era solito viaggiare), era morta trafitta da una freccia
ottomana alla gola, e lui, l’uomo del fiume, aveva avuto ferite.
Ma che stava bene, la missiva partì tardi per volontà sua, perché lui non voleva
lei sapesse di nessuna ferita prima che la stessa non fosse rimarginata.
Curata di impiastri e pozioni dalla vecchia cuoca del castello, di Skander la
nutrice, che aveva capacità vere di cucinare non solo cibo ma anche medicine.
Per cui al disertore, di lui nei documenti non troviamo altra traccia,
successiva e nemmeno il nome, la missiva, assai stringata, fu consegnata solo ad
avanzata cicatrice.
Al loro incontro successivo stando ai documenti, lei carezzò con danza di occhi
e di dita, stesa morbida di abbraccio sulla coperta fina, quella cicatrice con
dita di lumaca e di gomma riparatrice sull’errore.
Perché l’uomo partisse per una guerra non sua non è dato sapere.
Forse perché doveva, perché ci sono strade che sono strade anche se nemmeno le
si vede.
Perché serviva anche che scrivessero, un poco coltivassero rinnovato stupore e
distillassero così le loro cose.
Del saluto a inizio di serata vi sono poche tracce, lei a bordo di bottega,
uscita solo a fare uno sguardo perché sembrasse meno partenza e solo una piccola
uscita quotidiana.
Lei dopo spostò parecchi sacchi nel magazzino, mise su una tisana e scivolò
protetta nelle sue cose.
Lui si allontanò nell’ora più propizia a non far rimpiangere la città e io sole.
L’ora dei mantelli sulle cavalcature.
In cui a chi è proibito vivere nella città, per cultura e religione, o problemi
di qualsiasi natura, la via diventa cancellata e la strada alle spalle poi si
chiude come cerniera.
Fu un bel partire credo, a stare ai documenti e alle poche parole su una lettera
di Skander che li vide, in quel saluto volutamente quotidiano, e che poi scrisse
alla sorella anche di quello, anticipando il loro arrivo in Albania.
Perché partì, non c’e’ nei documenti una vera ragione.
Come succede spesso nella vita.
Ma si trovano le tracce delle lettere, dei suoi racconti a lei delle giornate
sulle montagne di quella guerra non sua, e da lei a lui i resoconti dei passi
nei mercati, della ricerca di sapori e odori.
In un’altalena tra la laguna e i monti di Albania.
Lui deve ad una lettera anche l’idea, così narra la leggenda dell’origine della
bandiera di quel paese.
Le scrisse che gli piaceva lo sguardo d’aquila sul nido, che lei aveva nel
vedere dei suoi turbamenti a volte, che il volo era più alto del picco nero al
passo tra Slovenia e pianura, che lei, pur piccola di aspetto e minuta nel
sentire, aveva a volte braccia forti come ali.
E che le aquile volano, in gioco, a coppie sulle montagne di quel paese.
A disegnare cerchi perché amano le cose perfette, tonde, senza sbavature, e non
esiste piuma o penna che scriva o sappia scrivere su nessun foglio e cielo con
spigoli acuti e angoli innaturali.
Dice un documento che in quel momento vi fosse sopra Skandar e l’uomo del fiume
un volo.
Scivolo di suono a fendere l’aria e riportare al cielo lo sguardo e nella testa
anche il pensiero.
L’aquila
sulla bandiera nacque così.
Solo perché era scritta e perché quel giorno sulla gola stretta di roccia lei
volava, placida, senza caccia né motivo altro che il volo.
Per forza e potenza evocativa, ma, questo finora lo sapevano in pochi, anche per
coincidenza, viaggio, eco di pensiero e di abbandono, voglia innata e vitale di
ali e piume.
Però è leggenda, il cronista di allora di quella lettera non trovò traccia
alcuna.
Sembra perduta in un fondo a Dorsoduro, forse fu usata da qualcuno anni dopo a
impacchettare pistacchi, spezie, te al mandarino venuto dalla Cina.
La lettera e le ali, cartoccio che per destino avvolge, in qualche strano modo,
necessariamente per necessità vera e naturale, ancora qualcosa.
Si trovarono altre lettere allora. Vergate con la scrittura che tradiva
l’emozione.
Lui narrava battaglie imboscate e frecce che sapevano di giudizio divino, del
coraggio che sa avere in ogni guerra solo chi non ama la guerra e ha coraggio
perché si forza a superare la paura e ha voglia di essere corazza lucida e tesa
ed armatura.
Di lei e dei suoi passi veneziani, sciolti sulle rive, pensieri con ritmo lento
di canale e moto in arrestato e lieve, dell’attesa di una missiva, della voglia
di raccontare persino una canzone sentita a bordo di canale, cantata in un
mattino di acque nebbiose, a fil di voce da qualcuno.
Non è chiaro il tempo delle loro corrispondenze, il tempo di transito, tra
partenza e arrivo. Nessuna notizia su questo.
Ma, se si riesce a riordinare quelle note, quei fogli un po’ macchiati per
fretta di dire, calligrafia a picchi come i pensieri, e poca pazienza a lasciare
asciugare la china e la scrittura, la sensazione è che sia una lettera sola.
Senza, per curiosità cronologica e bizza, logica preordinata, una catena, quasi,
legata ad un cancello, una fila di date accatastate, un filo di perle di dama
veneziana.
Non tutte le lettere sono arrivate a quel baule in Salamanca.
Forse. Dopo Parigi e la ricerca sulla Comune e sul loro cielo sulla piazza, sarà
necessario andare per calli, campielli e rive. Nella speranza di ritrovarne
alcune che lei lì serbava.
Cercare una bottega con la porta metallica scrostata.
Non avrà probabilmente odore di spezie ora.
Dentro facilmente immagini una bicicletta rossa abbandonata, un po’ scrostata,
perché il bambino che la usava è cresciuto anche lui. E poi la bici era anche
rotta.
Una sedia a cui manca una gamba, un secchio rotto improvvisato da un bidone di
vernice o chissà cosa, carte per terra.
Una gabbietta da cui il gatto riuscì a scappare un mattino felice.
Sarebbe bello che tra quelle carte ci fosse anche almeno una lettera mancante.
Una delle tante che nel baule spagnolo non ci sono.
“..ti scrivo dalla torre alta, il sole ha lo stesso colore del campo di
battaglia, ora.
Abbiamo rischiato di essere sopraffatti, per numero, armamento e sfavore di
terreno e di sole.
Poi un volo d’aquile ha oscurato il cielo e ritrovato la mira al nostro arco.
Alla fine ci siamo ritrovati stanchi di sangue e guardare sotto, tinto e già
scuro per la sera, il torrente.
Le hai mandate tu, vero?
Immagino di sì.
Mentre stringo la penna colorata che ho trovato, nell’acqua.
Galleggiava come un piccola lancia in mare, e io, attraversando il fiume, l’ho
raccolta sul cammino e penso alla città, alla sua acqua al sole sulle rive, al
rumore indistinto di musica e parole delle canzoni che arriva dal campiello lì
vicino, all’odore delle spezie e quello caldo e umoroso della pelle quando la
pelle è felice, e al tuo cammino….”
La lettera era lì. Unta di grasso di catena della vecchia bici.
Nel piccolo fondaco ora in abbandono.
Nido di gatti e di ramarri e gechi.
Non ci stava tutta la storia della guerra, della bottega, della lontananza,
delle maree e delle parole scritte con l’inchiostro buono, in un capitolo solo
di “Fiume”.
Manca e qui sarà necessario un balzo indietro temo, perché qualcuno così vuole e
il narratore è gentile di cuore, l’inizio.
La scoperta di Corto, la donna che guarda i pirati come se fosse una bambina e
loro non persone ma libri dalle copertine colorate, vecchie edizioni con l’odore
caro di carta e vita.
Perché l’uomo sa che alla donna Corto poi oltretutto piaceva.
Manca la storia delle battaglie e del sentirsi protetti, lei nelle botteghe e
tra gli odori cittadini, quel senso di presenza come in alone, lui nella terra
altrui e in una stranissima avventura da cui tornerà, a lei, senza né senso di
sconfitta né di esserne tornato vincitore.
Di documenti ce ne sono pochi, sono lettere soprattutto di cui chi ricerca
conosce poco anche gli antefatti.
Per cui domani la storia farà, capricciosa un balzo indietro.
Solo per ordine o confusione nel cassetto delle carte.
Me ne perdoni il ricercatore, io sono narratore e basta, ma oggi il cielo ha
colore di canale, dall’alto arriva l’acqua alta, e la stagione, persino in
assenza di vento a far dispetto, ha mischiato un po’ le carte.
Poi, dopo Corto, questo si sa dai documenti, lui farà ritorno.
Affronteranno un viaggio nuovo, carichi di spezie chiuse nei sacchi,
attraverseranno terre da mare a mare.
Terre nuove su carte antiche.
Ma questa è un’altra storia.
Nemmeno di domani.
Dopodomani.
Allora.
Perché così è la storia e l’acqua di quel fiume si è sciolta nel mare.
(vai all'appendice storica su Skander Bey)