XVIII La mano e il finestrino
L’uomo vende caffè nero e caldo in bottiglie scure.
A fianco del carretto verde coi profili in oro.
E' assai curioso. Alla vista.
Veste come un generale di altra epoca, con una divisa un po’ consumata, e con
quell’aspetto da ritirata dopo la disfatta, scritto nelle rughe del viso.
L’uomo e la donna, avvolti negli abiti più caldi, nella notte umida e assai
scura, percorrono i binari, alla ricerca di un vagone coi fregi sulla porta.
La donna si ferma e compra due bottiglie di caffè caldo e ne assapora il tepore
attraverso il vetro con le mani.
Poi rincorre lui, che cammina veloce, con le due sacche in spalla, lo raggiunge,
afferra il bordo della giacca lunga in cui lui è intabarrato e lo strattona.
Serrando le bottiglie con l’altro braccio a scaldarle il seno.
Si fermano alla porta del vagone.
Cosa fanno l’uomo e la donna in quella stazione?
In una notte che sul Bosforo non c’e’ nemmeno luna. O forse la luna è solo
nascosta dalle nuvole dell’autunno già inoltrato.
Nuvole a striscia fino a lambire l'orizzonte sull'acqua.
Dalle carte del terzo involto, e da alcune degli involti già aperti, sappiamo di
quel viaggio.
A risalire e poi puntare a Oriente. Ancora.
La tesi può essere che l’uomo e la donna semplicemente volessero inseguire il
sole al suo nascere, vedere dove esattamente esce alla vista degli uomini ogni
mattina, oppure che andando verso l’alba volessero modificare il correre del
tempo, perché magari anche così si anticipa il fluire delle stagioni.
Oppure.
Oppure che in quei documenti che Lev aveva affidato alla donna non fossero solo
contenute lettere d’amore per Anna Pavlova, da inviare e far giungere a lei, in
qualche modo, appena sbarcati dall’Aurora.
E che in quella busta di pelle di agnello, ripiegata a farne quasi una cartella
vi fossero, scritti in quella grafia cirillica, minuta e inclinata, tracciata in
nero di seppia, così minuziosa e quasi puntigliosa, altre parole. Nascoste quasi
in quei caratteri a rincorrersi per pagine intere, fitte e quasi senza margine
bianco ai lati delle pagine.
La cosa certa, è che i due amanti del fiume, in una notte scarsa di luce,
percorrono i binari della vecchia stazione della città, carichi di piccolo
bagaglio, quasi fossero in fuga.
Nella sacca dell'uomo sono piegati, e accatastati da lei, con cura, i loro pochi
abiti per quel viaggio, i più caldi per la strada verso il freddo. Pesanti
maglioni di lana cruda, caldi e leggermente pungenti se indossati sulla nuda
pelle. Più uno scialle a maglia rada e una sciarpa colore arcobaleno per mettere
luce e colori anche nel freddo.
Divisi nelle sacche, giacciono abiti e cambi di giornata, e poi, nella tasca
capiente a fronte, nella sacca blu mare di tela nautica di lui, cibo semplice
per le prime esigenze del viaggio.
Non fa ancora abbastanza freddo, nella città sul mare, in questa fine autunno
inoltrata, nonostante la notte spazzata dal vento al punto di stirare sottili le
nuvole anche in quota, perché il riso di lei congeli in vapore bianco col
respiro.
Ma, lì, sul marciapiede che divide i binari, lei lo raggiunge alle spalle,
leggermente affannata, e infila le mani chiare di pelle fredda e asciutta nelle
tasche del suo giaccone lungo, cercando caldo per le mani e avvolgendogli le
spalle col corpo in quell'abbraccio. Il fiato della corsa di lei, tambureggiante
e caldo, sul suo collo. A leccarlo di alito e di corsa.
Salgono nel vagone.
Il treno ha cabine simili a una nave. E letti incollati al pavimento. Serrati da
bulloni a fare dello scompartimento una camera, piccola, essenziale,
confortevole come una scatola per biscotti, su ruote.
Cabine strette, un letto con i piedi a lato a farsi colonne e a salire fino al
tetto, coperte marrone scuro di lana pesante, il ricamo della società dei Wagon
Lits sulla federa dei cuscini bianchi di bucato, tesi di appretto, posati sul
lenzuolo teso anch'esso, quasi freddo nel suo bianco immacolato di neve.
L'angolo della coperta rivoltato, a scoprire il telo del lenzuolo nell'angolo
alto, appena sotto il cuscino, verso il tavolino e la sedia prospiciente.
Il finestrino chiuso, abbassato e fermato dalla maniglia a elle di ottone
lucido, disposta orizzontale, e le due tende beige con arabeschi a fiori scuri
nella trama, a lato, ravvolte su se stesse e fermate in anelli, aperti a fronte
in un'asola, di ottone.
La sbarra gialla lucida con le grucce in legno e anello di ottone alla parete a
fronte del letto, quella che divide ogni scompartimento dal gemello pochi
centimetri oltre la paratia di ferro e legno.
L'ansa nella parete, dietro la sbarra, a fungere da appoggio orizzontale per i
bagagli e la mensola a ripiano, retta da due cinghie di cuoio rivettate alla
parete, per i bagagli estratti.
La donna posa le bottiglie di caffè, scure di vetro opaco e calde. L'uomo le
sacche.
Guardano, in piedi lui alla soglia, lei seduta sul materasso, spingendone la
superficie con la pressione a lato del corpo delle mani, quasi stupita
dall'inattesa morbidezza.
Osservano curiosi, recuperando il fiato dopo la corsa attraverso la città nel
buio a raggiungere il loro treno, gli altri passeggeri salire, nei quindici
minuti successivi.
Antecedenti la partenza.
Li vedono scorrere nello stretto corridoio prospiciente gli scompartimenti,
trascinando bagagli, a volte faticosamente procedendo di profilo per una borsa
troppo grande e ingombrante portata a tracolla, e infilarsi nelle cabine
identiche alla loro. Si sentono le voci. I commenti.
Il rumore delle porte. Di un finestrino bloccato e forzato fino a chiudersi
finalmente.
Accompagnato dai commenti soddisfatti in una lingua sconosciuta.
Passa un uomo in divisa da ufficiale. Due donne. Una donna anziana con una assai
più giovane.
Due giovani, probabilmente russi, coi berretti da studenti.
Consegnano al capotreno, lui parla, almeno con loro, solo in francese, ma
probabilmente questo è l'uso su quel treno, i biglietti comprati al mattino
all'agenzia Alya.
I documenti per il passaggio nelle notti dei confini, mentre le stazioni dormono
presidiate solo dai soldati delle guarnigioni e dagli addetti di turno al
lavoro.
L'uomo, coi biglietti e i documenti, chiude alle spalle la porta della piccola
stanza viaggiante, uscendo.
Lei riderà anche dopo, e lui fingerà di risentirsene anche, per il francese
abborracciato del suo compagno, quasi da recita scolastica o da saggio di fine
anno.
Fuori dal finestrino la stazione è calma.
Ogni passeggero è salito. Anche l'ultimo carrello dei bagagli, carico di bauli e
valigie di pelle scura ha finito lo scarico da tempo.
In silenzio il binario e oltre il binario il marciapiede principale, ormai.
Quello è l'ultimo treno della notte e fra poco anche la stazione dorme.
L'uomo e la donna, seduti sul letto, appoggiati di schiena alla parete, cadono
addormentati al primo sussulto del treno sui binari.
Al secondo fischio del capotreno probabilmente dormono già. Vestiti. Sdraiati
stretti, a malapena il capo posato sui cuscini, sul loro letto.
Li sveglia, un tempo indefinito dopo, quasi una piccola notte fosse già passata,
lo scarto laterale dello scambio.
Lo stridio dei freni. Il rallentamento dell'entrata alla stazione.
Transito solamente.
L'uomo e la donna, sdraiati sulla pancia, risvegliati come se fosse un'alba, a
guardare nella notte piena, fuori dal finestrino, le luci e le banchine scorrere
veloci. La donna pulisce col maglione tirato a coprire la mano, l'orlo serrato
nel pugno chiuso, la lana a farsi spugna, il vetro dal vapore fino a renderlo,
in una forma simile ad una mezzaluna disegnata, nuovamente trasparente.
In quella mezzaluna di vetro si perdono, con gli occhi, nelle immagini filanti.
Della stazione che scappa indietro e della città che degrada in periferia e poi
campagna, sempre meno luci fino al buio dei campi nella notte.
La donna alza le braccia, sfila il maglione, poi la lunga gonna. Alla luce
altalenante, in entrata dal vetro, resta nuda.
Illuminata e poi scura, al capriccio delle luci esterne, senza un ritmo
all'alternarsi di luci e correre di ombre, le luci proiettate sul suo corpo a
giocare chiari e scuri, susseguenti.
La luce che disegna in movimento, sfuggendo, il gioco avvolgente delle ombre. Le
sfila sul seno carezzandolo di giallo.
In piedi, nuda, a fianco del letto di metallo. Con le mani dell'uomo ora a
serrarle e ancorarle i fianchi.
Le labbra sue sul seno, a dare caldo e durezza ai capezzoli larghi e piatti.
L'uomo a tirarla a sé sul letto, a scivolarsela sul viso, afferrata bassa, le
mani a spingere le natiche strette nella presa. E lei, a scivolargli, col seno e
il ventre, sul viso.
Lei a scorrere sulla bocca, sul tocco delle labbra e la traccia bagnata e poi
asciutta e quasi ruvida della lingua.
Le ginocchia puntate sul cuscino, ad arco sul suo viso sotto, a gambe larghe
sulla bocca.
A riceverne il bacio e la carezza della lingua.
Puntata con le mani alla parete. Appesa con la mano destra alla lampada di
ottone, lì, alta.
Lo scompartimento buio nel buio opalescente della notte della campagna
circostante.
L'altra mano della donna posata sul vetro del finestrino, ad alonare calda il
cristallo di ghiaccio.
A lasciare l'impronta, a dita schiacciate nel peso dell'appoggio, aperte a
raggiera, stagliate nette, la firma della mano calda. Mentre lei scivola
sull'uomo e se ne impossessa.
L'alone della mano cola adesso di vapore condensato e fatto acqua.
Fili di sudore del cristallo. A sciogliere l'immagine della mano. In disegno di
gocce a tagliare verticali il vetro e l'appannamento.
Lei gli scivola sul ventre. Lo accoglie e ritma con le reni ogni scossa delle
traversine sotto le ruote di acciaio caldo.
Le mani dell'uomo a serrarle le natiche e a cercare quasi di fermarla,
trattenerla, forzarla nel suo movimento, a fine spinta, ogni volta.
Entrano nella stazione successiva mentre lei si affonda e trattiene le sue
scosse, solo dondolando i fianchi. Spingendosi fino a nasconderselo tutto
dentro, a svuotarsi e a sciogliersi caldo, con le reni di lei nella spinta
caricate come molle.
Le luci saettano sul suo viso, mentre asseconda con le ultime spinte il moto del
treno, sfilando veloci coi binari, l'orologio alla parete della stazione e con
l'immagine di quattro soldati, al buio della pensilina, visibili per un secondo
solo alla luce della brace delle loro sigarette accese nella notte.
Lei dorme così, dopo. Ventre su ventre e petto su petto. A farsi, con metà
corpo, coperta per lui che si fa letto per lei sotto.
Scorrono nel loro sonno un fiume gelato sulle rive, a fianco al treno, una
steppa brinata e altre stazioni, piccole e quasi per nulla illuminate
probabilmente per non turbare il loro secondo sonno in quella notte. Dopo,
ancora campagna, e silenzio rotto solo dal rumore dei binari e delle traversine
scosse dal convoglio in corsa veloce nella galleria della notte.
L'alba li sveglierà in piena campagna, con colore rosso e giallo chiaro
metallico in un cielo di ghiaccio.
L'aria simile al cristallo.
Campi di stoppie dopo il raccolto. Intorno, a correre e svanire alle spalle.
La tazza di caffè, ormai soltanto tiepido, ma per loro quasi caldo al palato,
bevuta direttamente dalla bottiglia scura. La bocca per tazza e la bottiglia.
La fetta di pandolce, secco sul taglio originale ma fresco e morbido dentro,
tagliata col coltello, disseminando il pavimento, seduto lui a bordo letto, di
minuscoli ritagli.
Seduti al bar di quel letto in viaggio.
A guardare scorrere il viaggio fuori dal vetro.
Si sono avvolti, nudi, nella coperta marrone di lana come se fosse un mantello.
Lei a percuotergli i piedi per gioco, strofinarli e sfregarli, per liberarli
delle briciole di pandolce raccolte da lui sotto le piante, mentre andava al
caffè sulla mensola di fronte. E lui a ridere, per quel tocco, ma solo per poter
giocare, in fondo, e rovesciarla.
Con la scusa della sensibilità a quel tocco, come un gatto su quel letto.
L'alba a questo punto probabilmente sarà anche del tutto finalmente compiuta.
E le luci gialle delle lampadine appese alle pareti della piccola stanza, gialle
di incandescenza e di ottone riflesso, avranno lasciato il posto all'argento
freddo e teso delle mattine dell'inizio dell'inverno.
Caldi di notte e dell'ultimo tepore rimasto al loro caffè in bottiglia, l'uomo e
la donna infileranno allora i maglioni più pesanti.
Per conservare dentro il loro caldo.
Quando il capotreno con la guardia di frontiera busserà alla porta, loro saranno
lì, vestiti solo dei maglioni di lana grossa.
Lei scivolerà così, a nascondersi un poco alla vista, sotto la coperta, per
vezzo fingerà probabilmente anche il sonno, e lui aprirà la porta abbottonandosi
i pantaloni in fretta e furia, approssimativamente.
Ma qui finiscono, e il narratore se ne duole, le tracce contenute nei tre
involti.
Si fa cenno ad un quarto e a un quinto, nella lettera di accompagnamento,
inviata con gli stessi dal custode degli incartamenti, al narratore. Non ancora
arrivati.
Nemmeno, a dire il vero, in fondo, esattamente, l'uomo che ha spedito questi
plichi al narratore, fa cenno al fatto di averli già spediti.
Ricostruendo con i pochi dati, probabilmente, il confine a cui si fa cenno è
situato lungo la linea degli Urali. Si sa che il treno arriverà, rispettoso di
un destino scritto nei tabelloni degli orari, a Mosca.
Ma è assai strana la velocità, se questa ipotesi è veritiera, e l'alba li vede
già al confine, di quel viaggio. In una notte sola nessun treno probabilmente
avrebbe mai percorso tanto.
Questa storia ha però abituato chi scrive a non stupirsi facilmente. Forse le
loro albe furono veramente due e non fu una sola notte. Divisa in due piccoli
risvegli.
Forse invece hanno percorso, davvero, molto più spazio del lecito e del
ragionevole, solo perché andavano verso Oriente.
"La tesi può essere che l’uomo e la donna semplicemente volessero inseguire il
sole al suo nascere, vedere dove esattamente esce alla vista degli uomini ogni
mattina, oppure che andando verso l’alba volessero modificare il correre del
tempo, perché magari anche così si anticipa il fluire delle stagioni."
Questa in effetti è davvero, a ben pensarci, la più plausibile spiegazione tra
tutte. Modellata sui loro tempi.
A chi narra piace in ogni caso immaginarla così, e, soffiando sul finestrino
alito caldo a ravvivare l'alone, ritrovare probabilmente nuovamente l'impronta
delle dita a raggio.
Stagliate e nette.