XIV Ma chi ha detto che non c'e'
i
I due del fiume partirono da Venezia, sull'Aurora, in quel mattino.
Il ponte della nave, spazzato dalla pioggia.
Lei col cappello calcato a proteggere un po' il viso.
I marinai con le facce da bambini correvano lungo i ponti e i camminamenti nelle
manovre all'uscita dal porto.
Passandole accanto salutavano, quasi militarescamente, scherzando, il taglio
della mano alla visiera di un immaginario berretto, il "capitano".
Il grigio dello scafo alzava e abbassava il fianco all'acqua, fendendola con
taglio della prua.
Giocando quasi a saltare o arrampicare l'onda, l'acciaio della prua lucido come
se fosse vernice nuova, rivoli d'acqua a scivolare lungo i bordi e le ringhiere.
L'acqua a salire, col taglio fondo d'onda, fino a bagnare il ponte a prua e poi
a correre in piccoli ruscelli e cercare ogni possibile via, per scappare, e
ritornare al mare, a farsi mare e onda ancora.
Acqua lucente come se fosse goccia di mercurio scappato da un termometro rotto,
rotolante su se stessa sulla scossa dello scafo all'urto d'onda, e poi veloce
velocissima, in piccoli e frenetici rivoli, quasi avesse un moto proprio e una
sua fuga nascosta, via, a sfuggire battendo una paratia, una parete, fino a
tuffarsi e infilarsi in un piccolo foro di scolmo a lato.
A lato dei due, fermi, aggrappati a un portello, equilibrio a quattro gambe di
due corpi che si reggono a vicenda, si muovono, come se ci fosse una invisibile
regia, marinai di nazioni e lingue sconosciute.
Scansano i due che trascinano il loro piccolo bagaglio verso la porta e la scala
che conduce alle cabine, agli oblò raso onda, tenendosi nel loro movimento per
mano alla murata.
Ammortizzando ogni scossa, il viso freddo per il vento e la pioggia di mare,
mossa in turbine dall'onda e dal moto della nave.
Questo si ricostruisce con ben poca fatica da note sul diario di bordo del
capitano dell'Aurora e dai diari di un polacco, tale Jazuskij, o Jarzuskij (il
nome sulla copertina del primo quaderno è dilavato dall'acqua e poco leggibile
purtroppo) che fu imbarcato per circa cinque anni sulla nave e riempì in quegli
anni parecchi quaderni dalla copertina nera, a sottili righe rosse sulle pagine
interne, fitti di note e appunti.
Il marinaio polacco, J. nelle note che sono arrivate dal ricercatore in Spagna,
racconta di quella piccola cabina, la porta in acciaio grigio, la maniglia a
saracinesca.
L'oblò macchiato di acqua a scrosci e incrostato di sale ai bordi, il sale che
ha serrato col tempo anche le viti e i bulloni a farfalla con cui la finestra
tonda veniva, in gioventù, chiusa ed aperta.
I due viaggiatori ridono, bagnati come dopo un tuffo, entrando nella piccola
cella.
Lui lascia cadere a terra la sacca blu notte e la grande borsa di cuoio
spellato, chiusa con fermagli da vecchia cartella.
Sono bagnati.
Fradici di acqua dolce di pioggia, il cielo ha pianto quasi, dalla partenza, con
la pioggia più fine, spostata dal vento a farsi tratto orizzontale e battere
negli occhi, e inzuppati di acqua salata sollevata dalla nave e dall'onda.
Dalla sacca della donna esce un telo di cotone.
Asciutto e largo. Chiaro arancione.
Si spogliano così, in piedi tra il letto a due piani sovrapposto di metallo e la
parete assai vicina fronteggiante. Strofinandosi a vicenda con quel telo fino a
fare rossa la pelle delle spalle, poi scompigliando i capelli e trasformando in
gioco e in dispetto lo strappo del telo, da lui a lei e poi da lei a lui, e
ancora, diventato ormai pesante d'acqua.
Lui coi capelli dritti, spettinati a calargli negli occhi, e lei che si diverte
a scompigliarli ancora.
Il freddo dell'umido dei vestiti ha lasciato il posto alla pelle arrossata dallo
sfregamento.
Poi, la cabina è piccola, e il gioco, il movimento, l'affanno e il respiro
l'hanno anche riscaldata in fretta.
I due non hanno freddo.
Lei sembra più piccola quasi alla luce grigia della lampadina schermata dalla
griglia.
Quasi tornata adolescente.
Lui sembra assai più vicino ai veri suoi anni, in quella luce che batte grigia
sul grigio della testa e dello sguardo.
Lei lo porta, indietreggiando nel piccolo spazio, tenendolo per entrambe le
mani, verso di sé, e scivola sulla branda.
La coperta di lana cruda, infeltrita e pulita sotto la schiena, il cuscino
tondo, piccolo, la federa un po' lisa, e la pelle che sente all'istante caldo
nell'essere lì accolta, punta finemente dalla lana, scaldata per attrito ad ogni
movimento.
Lui le scivola a fianco, sempre tenuto per le mani, evita col capo l'urto contro
la sponda della branda superiore e si stringe lì, la branda è piccola e sono
davvero stretti per evitare sotto le reni la barra di ferro della sponda.
La pelle arrossata sembra fatta, lì, in quello spazio piccolo e caldo, solo a
misura per la bocca e per le mani.
Si toccano così, come se volessero asciugarsi in questo modo ancora.
Quasi alla ricerca dell'ultima goccia nascosta.
Le mani della donna affondate nella nuca e nei capelli, di lui, a farci nido con
le dita.
Lui a scivolare ai fianchi, risalire lento in fil di pelle trasformando il caldo
in freddo sotto i polpastrelli.
A carezzarla tra le cosce, con la pressione a spingere la porta.
Giocano così, stretti nello spazio stretto, incastrati di gambe e braccia.
Il petto di lei compresso a quello di lui, a modellare ad incastro anche il
respiro, compressione e decompressione a conca, alternanza di fiato e di
respiro, ritmo incastrato, incastonato e modulato.
Mischiando, caldo di fiato.
Il narratore narra solo quello che il ricercatore ha ricercato.
Trovato.
Sul ponte superiore un marinaio con gli occhi forti e rossi di sonno e fumo e
rabbia parla coi suoi compagni di lavoro.
A detta di chi raccolse questi documenti il marinaio ha nome Lev Davidovic T. e
tutti lo conoscono come solo con nome e patronimico e basta.
E' il marinaio che ha spiegato in un inglese assai stentato, dalla forte cadenza
russa, ai due dove trovare la cabina.
Poche ore prima.
E che ha guardato i viaggiatori con un sorriso assai bello, per poi indugiare,
al loro scorrergli accanto lungo il bordo, con un sorriso assai più malizioso e
deciso sul passo e sulle forme, il culo in movimento e il passo della donna.
Parla, adesso, sul ponte, ad altri, attenti, di un suo prozio omonimo e lontano,
del manifesto di Zimmervald che lui scrisse durante la Grande Guerra e delle
armi e delle guerre di oggi.
E lì, sul ponte sotto la pioggia, a gambe larghe per compensare il rollio e
mantenersi eretto, sembra un tribuno uscito da un bel film degli anni '20.
Di come la nave trasporti anche in quel viaggio, in quell'oggi, armi nascoste
nelle stive per forzare un blocco, per una nuova guerra, lì nei Balcani, e di
come, con un poco di follia e di coraggio si potrebbe….
Lo ascoltano polacchi e russi.
E un marinaio antillano, l'unico scuro di pelle nella notte, giunto lì non si sa
per quale misteriosa sorte.
Nella cabina stretta, la donna e l'uomo hanno fatto pasto ormai di mani e di
carezze.
Di strette della mano, di lei, serrata a pugno e di pompare lento e dondolante,
controllo e rottura di ritmo, serrando il prigioniero nella mano, e di dita
lavate e torte e lanciate a risalire, a celarsi alte e poi scivolare in lei
ancora umide e luccicanti, per riaffondare, mano senza dita in parte, alcune lì
e celate, il dorso a schiacciare il taglio, dove sale chiudendosi a nascondersi
tra i peli.
Sono sotto la coperta ora, pelle su pelle.
Da fuori arrivano eco di voci.
Alcune concitate quasi.
Poi passi.
Rimbombo sul metallo delle scale, sui pavimenti del corridoio poi, di passi.
La lingua, i due non la conoscono, ma il suono delle voci lì fuori, quando
arriva, parla.
Si alzano nella foga, poi si abbassano e si fanno sussurro da complotto, poi
ancora una che si inalbera, e poi frena e si smorza, qualcuno che zittisce
qualcun altro.
Sembra quasi invitare, zittendo in una lingua sconosciuta, sfumando persino
l'invito a farsi più discreti per rinforzarlo, a qualche prudenza.
Secondo i documenti, lì nella cabina piccola, coi due letti a castello, vicino
ai due fatti piccoli nell'abbraccio dentro un solo letto, a terra, vicino alla
piccola anta di metallo che fa da unico armadio e ripostiglio, c'e' un pacco di
giornali.
Fatti di un solo foglio ripiegato in due.
Stampati male su carta di pochissimo valore.
Con caratteri strani, come sui manifesti dell'Ottobre Rosso.
Sarà per questo, per le voci che evocano anch'esse, che, a metà strada tra la
veglia e il sonno, la donna chiede a lui dei suoi giorni.
Di raccontarne.
Come se fosse tornata indietro negli anni e quei sogni fossero fiabe.
Del sogno dei sogni.
Di quegli anni che lei ha sentito solo nei racconti.
E lei da lui si fa prendere per mano. E ascolta giorni in cui il tempo era
diverso e il cielo era dipinto e le strade avevano voci a rimbombare e corse
sospese tra la rabbia e la paura.
A lui viene anche in mente una canzone.
Non la canta perché non sa cantare.
Sa che lei farà fatica anche a capire. Non c'era in quelle strade.
L'uomo si libera il viso dai capelli e legge, a lei, le parole scritte in fondo
alla memoria.
Sta nel fondo dei tuoi occhi
Sulla punta delle labbra,
sta nel corpo risvegliato
nella fine del peccato
Nelle curve dei tuoi fianchi
Nel calore del tuo seno
Nel profondo del tuo ventre
Nell'attendere il mattino.
Sta nel sogno realizzato,
sta nel mitra lucidato.
Nella gioia e nella rabbia,
nel distruggere la gabbia
Nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro
Nella fabbrica deserta, nella casa senza porte
Sta nell'immaginazione, nella musica sull'erba,
sta nella provocazione, nel lavoro della talpa,
nella storia del futuro , nel presente senza storia,
nei momenti di ubriachezza, negli istanti di memoria.
Sta nel nero della pelle, nella festa collettiva,
sta nel prendersi la merce.
Sta nel prendersi la mano, nel tirare i sampietrini,
nell'incendio di Milano,
nelle spranghe sui fascisti nelle pietre sui gipponi
Sta nei sogni dei teppisti
e nei giochi dei bambini,
nel conoscersi del corpo,
nell'orgasmo della mente,
nella voglia piu' totale,
nel discorso trasparente.
Ma chi ha detto che non c'e'.
Sta nel fondo dei tuoi occhi
Ma chi ha detto che non c'e'.
Sulla punta delle labbra
Ma chi ha detto che non c'e'.
Nella fine dello Stato
C'e', si' c'e'
Ma chi ha detto che non c'e'.
L'uomo, secondo i documenti ritrovati ,sul ricordo di questa canzone inizierà a
raccontare a lei, che all'epoca dei fatti, se sono esatte le fonti e le carte
del baule, nemmeno c'era, di una giornata strana.
Un anno dopo.
L'anno prima a Milano, lo stesso giorno dell'ultimo mese dell'anno erano morte
persone senza un'apparente ragione.
Era l'inizio della fine di una stagione.
E mentre la città correva per l'ennesimo Natale, lo scoppio ed il cratere in
centro, a rimbombare e rimbombare. E pochi giorni dopo un anarchico volava in un
cortile.
Un anno dopo, esattamente a cento o poco più metri, da quella piazza e da quella
banca, un ragazzo moriva.
Ma anche questa è un'altra storia, un racconto nel racconto.
Fatto da un uomo che magari a questo punto voleva solo dormire.
Per una donna che fa, su quella branda, a metà veglia e metà sonno, quasi fatica
dopo tanti anni, con tanti anni in mezzo, probabilmente anche a capire.
Note.
La canzone ha per titolo
Ma chi ha
detto che non c'e',
l'autore è Gianfranco Manfredi, è datata 1976, e fa parte di un album che ha per
titolo "Ma non è una malattia"
(a suivre)