La donna di Abele

di  Alba Gnazi

 

 

  La donna di Abele aveva lunghi capelli corvini che le arrivavano fin sotto la schiena, occhi neri e pelle scurita dal sole, un vitino stretto che fioriva su due fianchi floridi, abbracciati da un sedere alto e sfacciato. La donna di Abele sorrideva con le labbra, mentre gli occhi scintillavano di stelline d’intesa; quando rideva buttava la testa indietro ed espirava tutta l’aria che aveva nei polmoni con un suono cristallino. La donna di Abele era bella da togliere il fiato, se indossava un vestito nero coi fiori di stoffa cuciti sul decolletè, il seno a stento trattenuto che, orgoglioso, svettava sul busto magro, sotto il collo appena rigato da qualche linea sottile lasciata dal tempo, che poco si cura del bello.
La natura generosa le aveva donato una voce calda e sinuosa, che serpeggiava nelle vene dei rapiti ascoltatori allorquando, alle feste di paese, veniva invitata a cantare. Con un cenno delicato del capo appoggiava le morbide labbra rosse e piene a ridosso del microfono, reggendo l’asta metallica con entrambe le mani quasi a cercare l’equilibrio e la melodia la rapiva, conducendola, insieme a centinaia d’altri, verso remote distanze.
Nei pomeriggi d’estate era facile trovarla nei campi frollosi di terra appena smossa, a seguito delle macchine agricole, a tirar su fascine di fieno o a cogliere i pomodori, la folta chioma intrecciata nascosta da un fazzoletto, il viso tratteggiato qui e là di tracce di terra mescolata a sudore.
La vendemmia non la coglieva impreparata e lesta passava tra un vitigno e l’altro, le braccia appiccicose fin sotto il gomito levate verso l’alto, a trascinar via il frutto succoso e profumato, ancora caldo di sole.
Quella terra non era un posto facile da vivere, né da amare.
Ma i suoi talloni, induriti dalle scarpe ferrate, avvezzi a non stare mai sollevati su morbidi cuscini, avevano capito che per amarla, la terra, è necessario lavorarla e spargervi seme, fatica e ottimismo; lei c’ affondava dentro con rispetto; le zolle brunite si sfaldavano sotto i suoi passi come il burro .
Solida donna della terra, non incline alla mondanità, la donna di Abele ballava sui tini ricolmi di spumeggiante uva, le falde della gonna zuppe di mosto frustavano le sue gambe scure.

Cantava nella cucina odorosa di sole, basilico e torte appena sfornate; viaggiava con la fantasia nelle terre vaste e luminose della musica e del mare, mentre il vento del Mediterraneo concertava coi grilli sotto le fronde del pini.

Di notte, quando in cortile il guaito del cane si confondeva col frinire delle cicale e l’odore dell’uva spremuta si radicava nell’aria e inebriava i muri delle case , la donna di Abele apriva con lentezza le trecce pesanti che tenevano imprigionati i suoi capelli e lisciava quelle onde morbide con le dita aperte e gli occhi socchiusi.

Le mani morbide vezzeggiavano, con una crema all’essenza di rosa, le gambe magre e abbronzate, la pancia appena protesa all’esterno, i seni alti, le braccia forti.

La luna solleticava le lenzuola di cotone spargendo pulviscolo bianco nell’aria satura d’estate.

La donna di Abele spalmava sulle labbra del burro cacao e sul viso un poco di acqua di rose, che le sue narici accoglievano con riconoscenza, quasi più del viso, disteso ad accogliere il tocco del cotone e a spianare le piccole rughe che intarsiavano l’angolo degli occhi e della bocca, perfetta scultura del tempo perché sapeva ricevere con umiltà i suoi doni – anche quelli che faticava a comprendere, quelli che a volte sembravano sfide e dinieghi, quelli che le toglievano brandelli di respiro e le scorticavano la gola e l’anima con lacrime mai piante.

Vestita di una camiciola di cotone color panna, la donna di Abele si stendeva nel letto fresco, sospirando di sollievo e piacere. Ed era allora che iniziava il suo giorno vero, quando Abele, il suo uomo alto e muscoloso dal nome antico e forte, usciva dalla doccia e, ancora umido di acqua e stanchezza, appoggiava la testa scura sulle gambe della sua donna e rimaneva in attesa, senza parlare, respirando piano.

La donna sorrideva e stringeva gli occhi di tenerezza. Allungava una mano verso il suo comodino e prendeva il barattolo di olio di semi di lino, ne versava un po’ sul palmo della mano e massaggiava la schiena brunita e le spalle larghe del suo uomo, con lenti movimenti circolari. Il massaggio continuava fino alle natiche pallide, fin dove riusciva a giungere con la punta delle dita, poi era costretta a sottrarsi al contatto con la sua testa, che sollevava e poggiava con delicatezza sul lenzuolo odoroso di lei. Abele conosceva ogni singolo momento del rito serale: senza aprire gli occhi, lasciava che le mani esperte della sua donna compissero quei movimenti e proseguissero la loro opera.
La donna di Abele irrorava le gambe muscolose con l’olio e il massaggio diventava uno sfioramento lungo, verso l’alto e poi in giù; su, alla convergenza interna delle cosce con il centro del suo corpo, poi di nuovo giù, dove le ginocchia distese mostravano l’attesa zona glabra, solcata da due Y speculari su una gamba e sull’altra. La consistenza fluida dell’olio sui polpacci si sperdeva, così lei ne versava ancora un po’, a gocce centellinate e riprendeva il viaggio sul corpo del suo uomo. Le sue caviglie erano una delle parti che lei amava di più, con quelle sporgenze lievi, la pelle liscia e soffice tra l’osso che tendeva il muscolo e il tallone sottostante che anticipava le piante larghe dei suoi piedi, ruvidi del cuoio delle scarpe da lavoro: era lì, in quelle zone che raccontavano le ore spese tra i campi, sotto il sole che il vento estivo non blandiva, che lei diffondeva olio e infinite, dolcissime, lente carezze.

Abele sospirava di un piacere via via più intenso. Accompagnava il massaggio sollevando piano il proprio corpo, la testa voltata verso la finestra rorida di luna. Respirava l’odore del corpo di lei e quello delicato dell’olio di lino. Il cuore batteva lieve nel suo petto.

Poi arrivava la scossa, quella che entrambi presagivano con la certezza di non essere delusi.

Le braccia abbandonate sotto il massaggio della donna avevano una vibrazione improvvisa.
La mano dell’uomo cercava, nell’aria densa di notte e odori di ogni sorta, la morbidezza della coscia di lei, ancora seduta sulla sua schiena per massaggiargli le gambe.
Trovava il vuoto e quel vuoto si frangeva contro la sua coscia morbida. La mano saliva, quasi impercettibile, fino alla natica destra della donna, che si era accorta del movimento e aspettava la prossima mossa, continuando a massaggiare. Le ciglia dell’uomo fremevano nell’impazienza; la luce della luna adesso era nei suoi occhi aperti, si spostava dalla schiena nuda e lucida d’olio all’addome scurito dal sole, mentre l’uomo pian piano si voltava per permettere al peso delle natiche tonde di lei di scivolargli sull’addome.
I loro sguardi si incontravano. Sorridevano.
La donna di Abele versava dell’altro olio sul petto dell’uomo: continuare il massaggio come se niente stesse accadendo era parte del gioco.
Così la donna massaggiava, senza ignorare che le mani calde e grandi del suo uomo erano sotto le sue natiche , senza ignorare che il respiro dell’uomo si era fatto più corto e rapido, senza ignorare che qualcosa stava avvenendo a sud dei loro corpi e che la saliva aumentava nella sua bocca socchiusa.
Lui non resisteva oltre. Con un movimento veloce le toglieva la camicia da notte. Restava in contemplazione del grosso seno, del collo, del viso bellissimo imperlato di sottile sudore, della massa scura e profumata dei capelli intorno a cui la luna compiva orbite mai studiate da altri che non fossero lui.
Le sue mani si posavano sui fianchi stretti e salivano in alto, convergendo verso il centro del suo seno e poi ancora giù, fino al piccolo ombelico e oltre.
La donna di Abele proseguiva il massaggio senza versare altro olio: lo proseguiva con le labbra sul collo del suo uomo, sotto l’arco della sua gola, sulla pancia piatta e dura.
I piccoli e rapidi baci erano interrotti da lenti assaggi.

Lui sospirava forte; stringeva la carne morbida del suo seno e delle natiche, attraversava la sua schiena con i polpastrelli e con i palmi stesi, perdeva il respiro dentro il collo tenero di lei e poi, voltandola sulla schiena, spingeva le labbra e la lingua nell’addome lievemente striato dal passaggio dei figli che avevano avuto e nelle sue cosce magre.
La donna di Abele non emetteva un solo suono fino ad allora. Cercava quindi la sua bocca con avidità e lo teneva stretto a sé per lungo tempo, mescolando il respiro al suo, godendo del sapore pieno, noto, delizioso della sua lingua.

Poi lui la guardava negli occhi, con un sorriso di profonda intesa.
Lei ricambiava lo sguardo, ancora desiderosa di sentire la bocca dell’uomo sulla propria.
Lui abbassava la testa fin quando le loro fronti si toccavano.
‘’Che aspetti … ‘’ sussurrava lei. Neanche la luna avrebbe potuto udire. Ma lui sì ed era come un grido d’aiuto, come un urlo di gioia, come l’aver scoperto terre nuove senza muovere un passo.
Le ginocchia sulle gambe ripiegate di lei svettavano verso il soffitto di travi in legno, chiazzate di luce bianca e sudore.
Non poteva farla aspettare. Non poteva più aspettare.
Affondava in lei con un singulto, che soffocava nella sua bocca. Ed era come tornare a casa, era come emergere da ore di agonia. Quel ritorno, quel risveglio: ogni notte, come la prima notte.

La luna, discreta, lasciava lì la sua luce e si rilassava sopra al vento.

La sere in cui, vestita di rosso e passione, la donna di Abele cantava alla festa del paese, gli occhi scuri e caldi del suo uomo le ardevano sotto la pelle, come la musica che saliva nella notte, sopra i fumi dei fuochi accesi, sopra le teste che a naso all’insù si perdevano nell’ascoltare.

Lei cantava e poi scendeva dal palco, senza aspettare che l’applauso si spegnesse: lui era lì, sotto alle scale.
La prendeva per mano e con lei s’incamminava verso casa.

La luna sfiorava con dita curiose le tende svolazzanti nella brezza odorosa di prati e di mare : eccoli lì, come ogni sera.

Spruzzava attorno un po’ di luce bianca, lasciandoli soli e molto più tardi, assieme a loro, si appisolava, tenendoli stretti nel suo abbraccio, nelle nudità del cielo.