Haugesund ed un casolare
di Violet Erotica
Gliela dovevo far pagare, a quei bastardi. Era la seconda volta che cercavano di
fregarmi. Ne avevo abbastanza. Non potevo soprassedere, col rischio di rimanere
comunque coinvolta nell’inchiesta che la polizia aveva già avviato, con una
celerità a dir poco sconcertante.
Dovevo andare al casolare. Lo conoscevo a menadito, l’avevamo usato come rifugio
già un paio di volte nelle nostre precedenti scorribande. Quel casolare era
l’ideale per nascondersi dal mondo, non troppo isolato da destare tetri
sospetti, non troppo contiguo al paese per poter chiedere aiuto e ricevere
soccorsi in tempi rapidi.
Sì, quel vecchio rudere malandato, eroso dalle termiti e dall’umidità, era
proprio l’ideale per rifuggire quella massa informe di donne imbellettate e
uomini ossequiosi che chiamano civiltà. E con un minimo d’arguzia ci si poteva
facilmente mimetizzare con ogni centimetro quadrato di quella obsoleta
costruzione… Non m’avrebbero mai vista… Mai! La prima mossa l‘avevo in pugno io.
Lene palpitava, fremeva, si contorceva su se stessa, sembrava uno spirito
demoniaco in attesa di esorcismo. Il suo corpo schiumava rabbia e sudore. <<Ma
quand’è che si fa sentire, quel bastardo?! Bastardo, non penserai davvero che
receda dai miei propositi!>>
Era da mesi che fantasticava con quella sessione… Con quel luogo cupo, d‘una
spettralità che solo certe cornici bucoliche sanno donare, soprattutto
all‘imbrunire di una serata di primavera inoltrata, quando le giornate
cominciano ad allungarsi, il cielo si fa a mano a mano più terso, ma il freddo,
quello, resta ugualmente pungente al calar delle tenebre.
La saggezza di lui, stavolta, non aveva avuto la meglio. Per una volta, lei
aveva preso in mano la situazione. Per una volta, era lei la Padrona. Il
furoreggiare dei suoi afflati di follia masochistica l’avevano spuntata su
tutto, perfino sul ruolo che fino a quel momento aveva onorato scrupolosamente.
<<Vai a fanculo, Lars!>> sbottò, in preda alla collera. Per la decima volta, la
sua chiamata aveva squillato a vuoto. Cercò compulsivamente le chiavi della
macchina, che puntualmente smarriva in qualche angolo recondito della casa,
prese al volo la borsetta dallo scaffale sopra il camino, sbatté veementemente
alle sue spalle la porta d’ingresso senza nemmeno curarsi di girare la chiave
nella serratura, aprì con vigore la portiera dell’auto dal lato del conducente e
partì, facendo arrancare il motore per la precipitazione con la quale era stato
sollecitato.
Sarei entrata dallo scantinato. Sapevo perfettamente il punto in cui era stato
riversato un sottile strato di terra a sua protezione. Speravo che le ante di
legno non si fossero bloccate col ghiaccio. La settimana prima il meteo era
stato infernale. Avrei preferito entrare tirando delicatamente le maniglie. Non
mi andava proprio di profondere un ulteriore sforzo per sfondare quell’accesso
secondario. Una volta entrata, avrei sceso i sette gradini che conducevano a
quello spazio gremito di cianfrusaglie agricole, l’avrei attraversato
premurandomi di lasciare intatti al loro posto quegli oggetti (nel caso ai miei
ex-compagni d’avventura fosse balenata l’idea di percorrere lo stesso
itinerario, anche se lo ritenevo improbabile), sarei salita al pianterreno e da
lì sarei passata in un batter d’occhio all’ampia sala del primo piano. Mi sarei
nascosta a lato della minuscola finestra subito dopo l’ingresso e, una volta
arrivati, avrei aperto il fuoco in loro direzione non appena fossero scesi dalla
macchina.
Benedetto poligono di tiro. Non solo m’aveva resa un’eccelsa cecchina. Ma mi
aveva anche fruttato un paio di conoscenze d’un'utilità incommensurabile. E da
una di queste proveniva la soffiata. Sapevo che quegli stronzi sarebbero venuti
quella sera, con una parte consistente del bottino appresso.
Benedetto poligono di tiro. Benedetta soffiata.
Non volevo ucciderli. Se proprio fosse andata male, li avrei gambizzati. Mi
sarei comunque riappropriata di ciò che mi spettava.
Lene parcheggiò l’auto di fronte all’ingresso principale del casolare. Il suo
impeto era andato via via scemando con l’avvicinarsi della mèta. Quando varcò la
soglia dell’ingresso, era tornata la persona docile e affabile di sempre.
<<Calma, Lene, calma! Non risponde perché vuole tenerti sulle spine, perché si
sente offeso da questo inatteso ribaltamento dei ruoli, perché pensa che questa
sia la punizione emotiva migliore, in attesa di infliggerti quella carnale… E…
E… E…>> Lene si tormentava in questo groviglio inestricabile di pensieri e
supposizioni. In quel momento, non poteva esservi miglior passatempo.
Ma era sicurissima che sarebbe comparso. Nell’attesa, si coricò su una branda di
fortuna che aveva avvistato in una stanzetta al pianterreno. L’avrebbe accolto
così, distesa di lato con i muscoli del corpo totalmente compassati... Pensava
che il doveroso ristabilimento delle gerarchie non potesse che avvenire tramite
una postura completamente abbandonata ai suoi voleri. Si sarebbe mostrata per la
cagna che era. Si sarebbe sciolta nel concupiscente abbraccio fra gaudio e
dolore per la cagna che era. In quel posto tenebroso obliato da dio e dai suoi
sudditi.
<<E tu, chi cazzo sei?>> le chiesi sprezzante. Prima di dirigermi verso la sala
del piano superiore, avevo deciso di punto in bianco di dare un’ulteriore
perlustratina al pianterreno. <<Magari nei soggiorni precedenti può essermi
sfuggito qualche particolare…>> mi ero detta, senza troppa convinzione. Una
latitante, o presunta tale, dovrebbe conoscere ogni minimo dettaglio dei suoi
nascondigli. Dovrebbe…
Quell’ispezione, infruttuosissima per i miei scopi, m’aveva fatta imbattere in
questa lungagnona magra, atletica, dai capelli lisci e ramati, con una
bellissima coda di cavallo che le scivolava oltre la nuca, una pelle nivea, un
volto solcato da soavi efelidi e occhi d’un verde talmente pallido che
sembravano inneggiare al candore umano. Mi guardò con un’espressione palesemente
spaesata. Io ricambiai squadrandola da capo a piedi, con un malcelato cipiglio.
<<Ehm… Io… Io…>> farfugliò con commovente innocenza. Avrei voluto strapparle con
vigore sovraumano le parole di bocca. Nel mentre, mi sarei accontentata di
conoscere l’arcano motivo per il quale una strafiga del genere in gessato e
camicetta di raso si trovasse in quella nefanda stamberga, distesa supina su
quell’inutile branda, sconcio orpello usato solitamente per appoggiarci sopra
suppellettili di varia natura.
<<Questo è un luogo molto pericoloso, e non hai la più pallida idea dei pericoli
che stai correndo!>> Lo sentivo dal tono altero della mia voce. La reprimenda
era sulla rampa di lancio, pronta a spiccare il volo alla prima occasione utile.
<<Io… Io… Ecco…>> improvvisamente abbassò lo sguardo, visibilmente imbarazzata.
L’austerità assolutamente asettica con la quale la stavo affrontando la metteva
profondamente a disagio.
<<Che c’è?>> chiesi, cercando di far trapelare dalle mie parole un minimo
d’empatia. M’avvicinai a lei d’un passo.
<<Ecco… Io sono qua per realizzare una mia fantasia!>>
<<Fantasia? Di che tipo?>> La mia voce s’era fatta melliflua, quasi suadente.
Afferrò con un movimento leggiadro la borsa da sotto la branda, aprì una delle
cerniere e dalle viscere di quell’enigmatico scrigno uscì… Cristo, non ci potevo
credere! Un paio di manette…
La fissai per alcuni secondi totalmente inebetita. Sembravo un fermo-immagine
vivente. <<Ma… Ma… Proprio oggi? Non è possibile… Non è vero… Sto sognando!
Accidenti… Accidenti a me…>> Continuavo a bofonchiare, ormai alienata da una
qualsivoglia dimensione cognitiva e spazio-temporale. Il ricordo di Anders era
ancora fervido nella mia mente. L’unico schiavo che avessi mai collarizzato
nella mia vita. Colui che era complice nella mia vita. Colui che era succube
nelle mie perversioni. Colui che m’aveva tradita…
<<Si sente bene?>> chiese Lene, con tono apprensivo.
<<Dammi del tu!>> esclamai, cercando di conservare un certo autoritarismo nel
mio agire. Vanamente. A malapena mi sorreggevo in piedi. Le pareti, il soffitto
e il pavimento sembravano essersi accordate per trotterellare simultaneamente
davanti ai miei occhi. La testa mi girava e mi martellava. Diedi controvoglia le
spalle a quella donna, per non mostrarle il mio turbamento. L’avessi mai fatto…
Intravvide il calcio della pistola, infilata nell’orlo posteriore destro dei
pantaloni. Mi destai subitaneamente dal torpore, mi voltai di scatto, impugnai
la rivoltella e gliela puntai contro. La mia azione repentina non la scosse
minimamente. Anzi, sembrava quasi eccitata.
<<Ma che stai facendo? Ma sei pazza? Io ti…>> Si stava dirigendo verso di me,
strisciandosi carponi sul pavimento. Era madida di sudore, ed il suo vestito
raffinato poteva considerarsi bello che fottuto.
Era ad un passo da me, col viso tra l‘onfalo e il seno. Poi…
<<Sei una pazza! Sei completamente fuori! L‘ho carica maledizione… Se mi
partisse un colpo ti rispedirei da Odino a calci nel culo, sai? Cazzo! Cazzo!>>
Aveva cominciato a leccare la pistola, e mentre imprecavo e la subissavo di
contumelie, lei continuava, con un incedere sempre più sensuale… M’ero
precipitata affannosamente ad attivare la sicura. Non se n’era minimamente
accorta. Proseguiva tenacemente nella sua opera. Ormai tutta l’arma, ad
eccezione del calcio, era stata trapassata dalla sua lingua, umettata dalla sua
saliva. Quando ebbe finito, mi guardò con una voglia indicibile, cercando la mia
approvazione come una cagnetta mansueta che avesse riportato alla sua Padrona il
rametto appena lanciato da essa.
<<Ti prego! Ti prego…>> Quella giaculatoria m'infastidiva, e mi rendeva furente.
Non ero io la sua Signora. Si rivolgesse al suo fantomatico Dom, e soprattutto,
si levasse di torno, che avevo da fare…
<<Ti prego! Ti prego…>> La sua voce si faceva sempre più flebile. Quella nenia
la trovavo insopportabile. Eppure…
Tornai a voltarle le spalle, cercando di raccapezzare i rimasugli di quelle che
fino a pochi minuti prima avrei chiamato idee. Ora non erano idee. Erano miasmi
cerebrali.
Gettai a terra la pistola, scagliandola al di là della branda. Mi diressi
fulminea verso quella donna. La presi per i capelli e la trascinai verso il
vetusto giaciglio. La sbatacchiai sopra con tutto l’impeto di cui ero capace. La
ammanettai, avendo cura di farle male ai polsi senza però slogarglieli… Poi… Poi
non sapevo proprio cosa fare…
Di tanto in tanto, nelle mie depravazioni notturne, venivo pervasa da delle
fantasie di stupro… Ma mi ero ripromessa che mai e poi mai le avrei applicate su
una donna… Mentre con gli uomini… Beh… Già l’avevo fatto una volta, ed una
seconda non mi avrebbe certo procurato rimorsi…
Avrei voluto schiaffeggiarla a dovere, se non altro per essersi trovata nel
posto sbagliato al momento sbagliatissimo, ed essersi approcciata a me in
maniera alquanto inopportuna… Ma aveva una tale espressione libidinosa… Non
volevo trasmetterle le mie afflizioni. Ciò che io vivevo con angustia, per lei
era motivo di fanciullesca spensieratezza. E poi, dovevo ammetterlo… Quella
donna aveva una carica erotica irresistibile, alla quale nemmeno io, nella mia
ingarbugliatissima situazione, avevo saputo resistere.
Mi recai nella stanza adiacente, presi una bottiglia di vetro, la frantumai
contro il muro e raccolsi un coccio. Presi un panno, avvolsi in esso la mia
mano, poi tornai da lei. Mentre io compivo queste operazioni, lei si era
spogliata della giacca, della camicia e del reggiseno. La parte superiore del
suo corpo era ignuda, come la mia anima. In quel momento non potevo che pensare
all’assoluto privilegio di cui stavo beneficiando, nell’ammirare cotanto
schianto. Tornò a distendersi sul giaciglio, e cominciai a procurarle vari tagli
ed escoriazioni col coccio di vetro, in zone a mano a mano più sensibili. Ad
ogni fiotto di sangue che sgorgava dal suo corpo sembrava che lei si stesse
liberando dalle sue fragilità… Sì, ne ero certa, ero riuscita ad imboccare al
primo tentativo la via perfetta per farle raggiungere l’Eden sadomasochista.
Mentre estasiava pronunciò ad alta voce il proprio nome. Ma la fragilità che in
quel momento risultò determinante fu la mia.
La fragilità dei sensi.
Non avevo udito un’auto arrivare, e di conseguenza non l’avevo vista accostarsi
a quella di Lene.
Una persona irruppe in casa e piombò in un battibaleno nella stanzetta dove io e
Lene ce la stavamo per così dire spassando. Mi alzai, accennando una reazione.
Lei avanzò di qualche passo e mi puntò la pistola contro. Aveva un’andatura
caracollante ed un ghigno trionfante stampato su quella sua faccia da schiaffi.
Solo in quell’istante realizzai l’amara realtà: la mia frenesia sadica m’aveva
fottuta ancora. La mia pistola era lontana da me. Spontaneamente misi le mani
dietro la testa, in segno di resa.
<<Ciao gioia, sono la ragazza di Anders. Vengo a portarti i suoi saluti.
Constato con piacere che continui a dedicarti a certi trastulli.>> Quelle parole
erano come una lancia conficcata nel mio costato. In quegli attimi fui pervasa
dalla rabbia, per come quella donna, rivolgendosi a me, aveva schernito con lo
sguardo Lene.
Allora Anders era diventato un vanillone… <<Tzè, sono sempre stata una pessima
insegnante…>> pensai, non sapendo che altro fare se non dare adito a tutta la
mia macabra ironia.
Nel frattempo lei continuava a guardarmi, torva e sguaiata al contempo.
Il revolver puntato verso la mia figa.