Il foglio è bianco e pulsa solo il cursore del caporiga.
 

 

 

 

 

 

 

Il foglio è bianco e pulsa solo il cursore del caporiga.
Chi scrive sa che è un vero battito cardiaco quella lineetta verticale.
Un’attesa di una prima parola. E dopo le altre in fila. Accelerano da sole.
La lineetta si sposta e batte il ritmo, le parole la inseguono e non la raggiungeranno. Mai.

Questa è la storia di persone di pietra.
Qualcuno l’ha già sentita in un racconto personale in altro luogo.
La città della storia è quella che cambia ad ogni visita.
Che stupisce ogni volta.
E rinnova lo stupore.
Che ritrovi camminando lungo i viali già percorsi e ti sembra domestica allora.
Ma poi vuole stupirti. Sempre.
Ed eleva, tanti anni fa ormai, cattedrali di tubi in mezzo a case fascinose

e abbaini da film straziante con amori consumati e lampadine da trenta candele.
Colora di luce pennellata e scritte e parole di Prevert

tracciate gialle dai riflettori i suoi teatri a dire…

Inizia un millennio nuovo e ci sarò, bella come da mille anni prima,

nuova per voi che siete i miei amanti fedeli e ricorrenti

e ritornate a scaldare il mio letto e farvi scaldare il cuore, dietro la vetrina di un bistrot.
Quello dove ritorni ogni volta quando torni là.
La tua vetrina, coi tavolini dietro, a ritrovare ritmi, odori, suoni, umidi umori.
Acciottolato vecchio di carrozze e viali da aeroporto dello sguardo,

disegnati per permettere squarci di cannone

dopo che l’assalto al cielo di amanti infervorati fu soffocato.
Ma quella è storia vecchia un secolo e mezzo quasi, e qui non la racconto.
Se penso alla Comune di quell’anno, inevitabilmente nell’odore di fumo vecchio del bistrot e nello sguardo di una ragazza troppo carina al tavolo di fianco, carina,

incrocia a volte anche lo sguardo, il sorriso è appena un accenno all’angolo del labbro,

e ha dita affusolate che carezzano da amanti una tazzina vuota

e vorrei farmi tazzina e farmi bere, con striscia di rossetto poi sul labbro di porcellana…

Se penso a quei giorni di glorie lontane, immagino storie di passioni,

amori tragici e forse anche proibiti, bruciate in fretta nella corsa al cielo,

angeli in amore e donne in vendita e irsuti briganti caduti a colpi di cannone.
La città serba ancora nell’eco più forte della gru di un cantiere l’eco di cannonate.
E l’ombra di quegli amanti.
Culla un senso di ansia e di sesso marcato di provincia nei suoi odori.
Sigaretta forte tra le labbra di una donna col passo che rapisce l’occhio

e lo incolla ad una gonna che danza.
Due studenti che cozzano chiodi di ferro nella lingua nella scherma di un bacio armato.
Profumo di molluschi accostato con sfrontatezza quasi oltraggiosa

al ricordo di pane fresco nell’aria e della fornaia.
La fornaia è in via…e ha un seno da cartolina.
Porteresti via sotto il braccio il pane e nelle mani il calco di quel seno.
Godi di lingua poi il mollusco, in quel bistrot.
Come frugare una donna. Ci trovi morbida carne nascosta che si sposta docile sotto il tocco della lingua e acqua fresca di mare a dissetare.
E succhi l’ostrica quasi con violenza. L’acqua e la donna.
La strada porta uno slargo.
Non è vera piazza.
E’ uno strano museo. Ed era atelier dello scultore.
La coda è poca, uomini e donne di altre provenienze, io e lei, quattro che sono certamente studenti di Accademia e ridono come a una gita della scuola nell’attesa.
L’atelier era di uno scultore che fu vero grande disgraziato ed egoista amante

e ottimo scultore.
Ma la sua biografia non è compito mio adesso.
Marmo bianco che scaturisce corpi,

a volte il corpo nasce dal marmo che si mantiene ancora blocco grezzo.
Dal cubo o dal blocco escono solo due mani.
O due incompleti corpi in un abbraccio.
L’Atelier ha un giardino al centro, chiuso tra mura.
E nel giardino una processione di corpi in marmo.
Non puoi non baciare lei mentre sfiori quei corpi.
Altri si baciano contro l’edera in fondo. Lei è schiacciata all’edera come se ne fosse parte. Lui la bacia e ha una mano sotto la sua maglietta.

Capita raramente simile intimità in quel luogo.

E’ l’ora strana, i guardiani a riposo per il pranzo,

la giornata che era piovosa prima, la poca gente in visita.
E allora è festa improvvisa in quel bacio e in quella mano.
Torno da solo nella prima sala.
Dove la donna in marmo mi ha riportato. Il seno sembra un invito.

La curva lenta con cambio di andatura e la risalita del capezzolo.

L’ombra che si disegna alla luce della finestra grande e vecchia come la casa credo, finestra in legno, forse da ripittare.
L’occhio carezza la curva di un seno che rapiresti con amore.
Sembra quasi di ricordarne sotto le dita l’impronta rubata sotto una maglietta

un giorno di scoperta.
Il seno e il corpo, anse continue plasmate dalla mano e lo scalpello e l’ombra e il sole.
Ma il seno, quello.
Seno per chi non vede e legge con le dita cercandone il calore.
Quel seno da ragazza di piccolo paese.
La mano si posa su quel seno.
Percorre.
Stringe.
Carezza e sfiora.
Cerca di serrare.
Non sembra nemmeno freddo il marmo sotto le tue dita.
Senti la donna calda e ti sembra di sentire anche l’affanno del respiro, sotto quel seno che ad occhi chiusi percorri stupito.
L’unico custode della sala rientra e poi ti fa una scenata.
Fortuna che la sala è vuota.

Ti salvi almeno da quella vergogna e dall’umiliazione davanti a lei o agli studenti.

Non si può toccare in un museo. Non si toccano le sculture di Rodin.
Ma, lui…il custode paludato? Non sapeva di un’altro seno uguale a quello,

e dell’impronta, il calco, lasciato anni prima in una mano

e che lo tu sentivi ancora caldo come allora mentre guardavi il marmo.
Stavo solo controllando… scusi…sembrava proprio quello…il seno… Non resistevo…
Non puoi certo dirlo.
L’epilogo? La faccia resta truce verso il visitatore, le spiegazioni a discolpa in un francese da solo 500 parole scarse, imparato viaggiando e in compagnia di qualche amica lontana nel tempo, era pessimo e la spiegazione, a giustifica data, credo incomprensibile.
Ma sono sicuro di un ammiccamento del custode, dopo l’inevitabile sfuriata.
Il custode sì… ha strizzato quasi l’occhio.
Perché da quel sorriso nascosto sul suo viso, complice quasi, sono stato certo all’istante, come l’avessi visto…che su quel seno… alla chiusura del museo…la sera…più volte anche la sua di mano si sia riposata.


Nella versione…da blog o da sito personale… c’è sempre qualche parola aggiunta, ringraziamento omaggi, dediche del cuore, qualche spiegazione perché quello che è mio sia anche di chi mi ha seguito nel racconto.
Primo… una raccomandazione…andate e ritornate in quella città appena potete.

Forse lo fate già e non occorre ve lo dica.
Anche da solo o da sole.
Riserva se ne prendi un poco ritmo e luoghi nel cuore

e ti ci adagi con passo da abitante e non corsa da turista, sempre sorprese.

E persone anche, che non lasceresti forse mai, ma poi le lasci, incontrate per caso

a volte in un bistrot o in una panetteria.
E in quella città cercate quel museo/casa/atelier di un uomo che scolpiva nel marmo

come carne le sue amanti e le sue modelle.
Resistete però voi alla voglia di toccare… non so se il custode perdonerebbe ancora.

O se sarebbe ancora più geloso che con me di un privilegio che credo si riservi,

    alla sera, alla chiusura.
    Girando per le sale o nel giardino poi, magari mi incontrate.
    Io ci ritorno, quando posso, come si fa da vecchi amanti, nella casa del tempo, da quella donna che di lì non muove.

    Vi regalo adesso… se il link mi riesce, anche la foto di quel seno. Giuratemi però che non lo accarezzate…che non me lo rubate…

   
Dedico in particolare a chi so non potrà non andare, adesso, in quel museo.
    Io non ci sarò, di me soltanto l’ombra dei miei passi e, nel vapore del respiro posato sul marmo freddo, l’alone di una mano.

 

 

 


 

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