Entrò nel bar, come faceva quasi tutte le mattine.
Lo stesso bar, salutò D., il barista con cui scherzava perché era tifoso della Juve ed era diventato facile bersaglio di motteggi e perché, sotto le maglie aderenti nere che di solito indossava stava mettendo su precocemente pancia. E ancora non si era sposato…
Poi A., alta, carina, baschetto di meche a spiovere sul viso, solare nel sorriso. Il piccolo seno alto, tenuto prigioniero di reggiseni troppo stretti che lasciavano vedere maliziose sottili bretelline nere sbucare sulle spalle dalla maglietta di giornata. A lui piaceva quella ragazza alta, soprattutto quel sorriso che le faceva attribuire da chi le parlava o la guardava un’età ancora più giovane di quella pur giovanissima che aveva.
Caffè.
Corto.
Scuro.
Amaro.
La piccola brioche di sfoglia croccante e ben cotta con dentro pezzi di mela alla cannella.
Il terzo caffè, quella mattina. Il terzo ogni volta che, prima di avviarsi al lavoro se la prendeva comoda. E entrava nel locale.
Perché nelle sue corse quella lentezza nell’avvio delle sue mattine era l’unica sua difesa naturale, spontanea, fisiologica. Non pigrizia ma quasi una barriera, motore diesel lento a concedersi alla corsa che inevitabile poi ci sarebbe dovuta stare.
L’unica auto-indulgenza che si concedeva a proteggerlo dalle inevitabili tensioni.
E come capitava qualche volta dalla porta aperta sul corso colorato di luce di primavera, l’aria quasi buona nella città di solito inquinata, grazie a un leggero vento di giornata, entrò, incurante dell'uomo quasi vicino alla porta intento a fare colazione, per nulla intimorito. E l’uomo al bancone lo vide entrare.
Si posò sulla soglia, poi a piccoli voli arrivò quasi ai suoi piedi. Al lato opposto della corsia lunga tra muro e bancone.
Muovendo il collo, nel battere del becco a raccogliere briciole di cento brioche e cornetti differenti dal suolo. Muovendo il collo quasi guardandolo, spiandolo di sbieco, mentre l’uomo, col caffè a metà ancora nella tazzina, mangiando il piccolo dolce, cercava di proteggere giacca, cravatta e camicia dalle briciole fragranti di cannella e burro che cercava di evitare.
Ad ogni passo del passero, ma che fosse passero e non pettirosso o altro naufrago degli alberi della piazzetta, l’uomo solo lo supponeva, uno sguardo, a capo reclinato a lato, all’uomo, unica presenza nell’ora tarda del mattino davanti al bancone.
L’uomo pensò guardandolo ad una donna che aveva paragonato poche ore prima ad un uccello impazzito in una gabbia. Che sbatteva le ali, ferendosi quasi da solo, facendo della sua paura così ancora più una gabbia - la porta era aperta e lei nella paura manco la vedeva - di quanto, la gabbia stessa, gabbia fosse.
E l’uomo allora cominciò a lasciar cadere briciole.
Una, due, tre.
Sempre più vicine.
A lui sembravano diventare più grandi, per una decisione quasi inconscia e autonoma delle sue stesse dita, man mano che cadevano, lasciate libere, più vicine ai suoi piedi.
L’uccello una dopo l’altra le mangiava.
Avvicinandosi, il collo solo, o almeno così a lui sembrava, più nervoso nel chinarsi a lato beccando e guardandolo ogni volta a capo sbieco. Con piccoli balzi che erano corti voli.
Poi l’uomo cominciò a lasciare la sua traccia cadere non più al suolo ma sul bancone.
E il piccolo uccello cambiò modo di agire nei suoi piccoli voli, decollo e atterraggio in un battito d’ali solo. Si alzò più deciso dal suolo, l’uomo aveva enfatizzato il gesto perché potesse vedere il differente luogo di atterraggio del boccone, e planò richiudendo le ali a lato della grossa zuccheriera di acciaio dai lunghi cucchiaini.
E briciola dopo briciola arrivò davvero vicinissimo alla sua mano.
Non cercò di afferrarlo e stringerlo nella mano come avrebbe voluto d’istinto fare.
Era curioso di quelle ali nella gabbia delle dita, di quel battito di cuore che nella mano avrebbe sentito certo accelerare.
Della sensazione che serrando la mano avrebbe facilmente e irrimediabilmente potuto troncare anche, solo volendolo, definitivamente ogni futuro volo. E della sensazione che avrebbe provato non facendolo, come sapeva sarebbe stato. Persino della paura e del piacere in quegli occhi ebbe desiderio quasi infantile.
Posò un terzo quasi della piccola brioche sul bancone sul tovagliolino, quadrato piccolo e bianco, in cui l’aveva avvolta tenendola in mano.
Guardò l’uccello avvicinarsi: ora era così preso dalla ricchezza del boccone e incosciente quasi per l’abitudine a frequentare quel locale, che se l’uomo fosse stato veloce certo l’avrebbe imprigionato nella mano.
Lo guardò affondare il becco e poi quasi tutto il capo nelle creste di sfoglia, fino a farsi momentaneamente cieco.
L’uomo frenò la mano.
Poi salutò il barista con la maglia nera un poco gonfia sull’addome e la ragazza dalle spalline maliziose nere tra spalla e collo, e uscì dal locale.
Il giorno dopo, sì, aveva già deciso, sarebbe stato un cornetto croccante al miele. Sì, avrebbe scelto quello, per cambiare.
E la giornata della incombente primavera avrebbe avuto porte aperte sul corso a non frenare il volo, perchè l'uccello avesse libertà di scegliere e anche, volendolo, la scelta di fuggire.
E allora avrebbe sì provato a mettere una briciola sul palmo della mano.
Con la porta aperta della gabbia, oltre i tavolini, sulla via ancora leccata dal sole.
Domani, o forse il giorno dopo l’uccello sarebbe salito lì, da solo nella mano aperta, a beccare.
Avrebbe sentito allora i piccoli colpi del becco sul palmo farsi sempre più decisi.
Poi avrebbe chiuso le dita della mano, Avvolgendolo nel suo calore.
Curando, in quel potere delle dita, strette al limite del soffocare, avvolte a cingere il suo tremare, che il suo cuore impazzito non si potesse più fermare.
 
 
 
 
 
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