( scritto a quattro mani con LaDispettosa )  

 

 
   

 

 

 

 
Con gli occhi chiusi sento il tuo lento avvicinarsi. Con passo vellutato e silenzioso come per non turbare il mio sonno fasullo. Con gli occhi chiusi solo perché, prima di guardarti, voglio odorarti, ascoltarti, mangiarmi il tuo respiro. Farne aria che mi entra nei polmoni prima di essere di nuovo buttata fuori. Mi entri in circolo, come sangue nelle vene.
Ti sento.
Il tuo gesticolare con la cintura, il tintinnare del bottone di metallo.
Lo immagino il tuo viso, sai?
Lo immagino teso, ora. Immagino le labbra serrate, gli occhi leggeri che viaggiano intorno, si posano su di me, si abbassano verso il cazzo che sei riuscito a liberare. Poi nella stanza. Mi assapori ancora. Mi assapori con gli occhi. Lo sento addosso il tuo sguardo.
Ascolto il respiro che si fa pesante, veloce. Faccio fatica a non seguirti. Faccio fatica a rimaner calma, distesa sulle lenzuola bianche macchiate dei miei umori. In silenzio per non disturbare il tuo momento. So che ti stai toccando. La mano si muove rapida. Poi si arresta. Poi riprende a correre.
So che lo fai per me. So che è un tuo regalo, uno spettacolo tutto al personale. Come il mio per te. Per i tuoi occhi.
Li socchiudo appena. Mi guardi.
Sarebbe una follia non far dono di quello che mi offri. E allora ti incollo gli occhi addosso. Seguo con lo sguardo il movimento della mano, l’altra che stringe e solleva le dure sacche di sperma.
Sposto un po’ la testa, leggermente da un lato. A pochi centimetri dallo schizzo di sperma che finisce anch’esso sulle lenzuola.
Ti piace il tuo sapore?
Te lo offro nel palmo della mano come ti offrirei il mio. Ora.
Poi mi rannicchio, su di te, sopra di te.
Come grotta protettiva ti eleggo. Come nicchia per il mio corpo nudo.
Chiudo gli occhi.

Il pensiero viaggia veloce se ripenso.
Se rileggo.
Se immagino.
In un sogno potrei inseguirti per ore fino a sdraiarti a terra e salirti sul ventre. Muovermi dolcemente su di te con ancora addosso i vestiti. Le ginocchia poggiate a terra.
Sentirti crescere sotto le mie spinte. Vedere i tuoi occhi che mi chiedono di non smettere.
Non smetterei mai.
Lo sai.
Mi piace tenerti sotto, decidere io delle situazioni. Del come e del quando.
Adoro vedere i tuoi occhi supplicare. Adoro sentire le tue mani cercarmi. A volte, lo ammetto, mi piace non farmi trovare.
Amo, e lo sai, sentir tirare forte la corda.
Ma non avermene, per favore.
Sono così. Dispettosa. Capricciosa a volte.
Ma se tu dovessi sparire, una volta riaperti gli occhi, mi sentirei morire.
Con gli occhi te lo direi.
Ti direi che non smetterei mai di cercarti, con gli occhi chiusi.
Te lo direi con uno sguardo malizioso e sfrontato al quale so che non riusciresti a resistere.
E con un leggero sorriso agli angoli della bocca scapperei da te per farmi poi prendere ancora. Per ritrovarmi stretta tra le tue braccia e farmi premere dal tuo peso. Dalle spinte che, affamato ed ingordo, vuoi infliggermi.
Ti prenderei per mano e ti racconterei delle mie fantasie.
Ti condurrei in ogni luogo dove vorrei fare l’amore. Dove vorrei essere presa.
Ti parlerei di quello che vorrei farti. Di quello che farei.
Con gli occhi chiusi.
Perché al buio tutto diventa diverso. Perché la notte protegge gli amanti, i ladri, gli assassini.
È complice silenziosa di ogni cattiva azione.
E allora farei l’amore con te per ore, finché il sole non viene a ricordarci che un altro giorno è arrivato.
Finché le sagome del tuo corpo, del mio corpo, non sono più sagome ma iniziano a prendere colore, sapore, forma.
Aspettando la notte successiva. Aspettando di chiudere nuovamente gli occhi per trovarti ancora qui.
Lo so che ci sarai.

 

 

 

Ora il suo respiro si è fatto lago.
Ha posato il capo nell’incavo delle mia spalla con un respiro forte, calcato, se fosse stato piede sulla sabbia avrei scorto il calcagno e ogni singolo dito.
Se fosse stato mare, quasi tempesta.
Pianissimo ha perso volume e accelerazione.

Si è diluito su se stesso, un sasso gettato in acqua, che dopo cerchi frenetici, vicini, quasi accostati in spazio e tempo, pian piano si allarga, si fa lento, dilatato.
Smussato e quasi più forte e potente man mano che recupera regolarità e calma.
Respiro di cuore leggero, un po’ infantile in quella posizione, col tuo muovere i piedi, rannicchiare e sfregare le piccole dita, buffe e minute, sul mio polpaccio. Fanno le fusa le tue dita, così, sempre quando ti addormenti?
Impastano il polpaccio come piccole mani su una montagna di acqua e farina. Sfregano leggermente in punta le unghie, non graffiano, fanno quasi il solletico, arano la mia carne senza ferirla, al rannicchiarsi delle dita e al loro distendersi, scimmiottano te e il tuo corpo, avvolto quasi dentro il mio sul letto.
Sei sconvolgentemente bella così abbandonata.
Ancora di più di quando mi gemi sotto.
Non hai difese, non hai domande da fare per risolvere dubbi o paure.
Ti affidi all’abbraccio, respiri offrendomi le labbra che alitano lente, potrei mordertele a sangue, sono golose e viene voglia di rubarle.
Guardandoti io mi perdo…
La barca era nel porto.
Sfiorata solo dalla piccola onda che osava superare i frangiflutti che zigzagando facevano barriera contro le ire dell’acqua nei giorni di vento o di burrasca da ponente.
La piccola barca aveva navigato, scoperto le sue isole, barca curiosa che non teme il controvento, rischiato i suoi naufragi di guscio in un mare che le sarà sempre, ma la barca è troppo giovane di fasciame e chiodi per saperlo, le sarà sempre troppo enorme, fondo, nero appena sotto il velo azzurro, e resterà inesplorabile, anche dopo mille miglia con il vento in poppa, fino all’orizzonte. Riposa, mossa a lato dalla piccola onda.
Serbando in sé l’eco delle raffiche, l’incrocio con velieri e vecchie carrette del mare cariche forse di nulla, colori di boline gonfie di vento, tirate lucide a tagliare l’acqua inclinate dal vento. Naviga bene e anche senza paura, spesso, sempre di più adesso, la barca.
Adora sentirsi piccola in quell’immensità e ogni volta che torna in porto è stupita da tutto quello che ha visto, è carica di sale disseccato dappertutto, ladra di schizzi portati dal vento o dalle onde. Ogni vento per lei è un nuovo vento, carico di odori di spezie ancora più lontane.
Là dove finisce il mare dev’esserci il paese delle spezie…
Quelle che le sconvolgono il respiro, la attirano a navigare, la emozionano, la riempiono di sapori sconosciuti da rubare.
Quelle negate al piccolo porto chiuso tra i suoi scogli.
Lui ha ragione di essere forse solo nella sua forza.
Quando la piccola torna ada attraccare, lui è lì.
Lei può scivolare tra i moli alternati che lo lasciano sempre comunque aperto, cogliere l’ultimo vento e lasciarsi portare ad aderire alle sue mura. A volte lui la lega con le corde, dure se lasciate al sole, ma così morbide da sembrare di panno e non canapa che segna anche le bitte, quando lei le bagna nell’attracco.
 La tiene e lei si fa tenere, si scioglie, si porge ad ogni nodo, come se dovesse essere la sua sorte, e farsi parte del porto, ancorarsi stretta e farsi imprigionare, quasi.
 A volte lei gioca a cozzare lentamente, ammusa a lato contro, gioca con l’onda lunga regolare e lenta che filtra sin lì, dentro. Lo bacia e si scosta.
Poi torna. Poi si nega.
Ma il meglio è quando viene notte.
Di solito da terra, capovolgendo il ritmo del sole si alza un po’ di vento.
Niente di che. Non un vento da strappare ormeggi, no.
Un vento da far fischiare, sibilare di gemiti animali, sartie e gomene, da trasformare l’albero nudo, la vela è ben posta, ripiegata sulla barra, la barca è nuda mentre riposa, in corda tagliente di suono strappato di chitarra.
Tutto si nega intorno alla vista se la notte è libera di luna e stelle.
In quel buio scandito dal rumore e dai lamenti ininterrotti sembrano fare l’amore fino all’alba.
Quando arrivano i primi pescatori e l’addetto ai rifornimenti di gasolio e acqua loro dormono ancora, dopo aver spento il vento.
Lei abbandonata sembra non volersi risvegliare affatto.
Sta bene lì.
Dentro di lui ha fatto piccola tempesta e casa. Sa che non permetterà che nulla la tormenti, nulla tenti di farla naufragare.
Sa anche di essere libera. Di andare.
E libera di tornare.
A rannicchiarsi lì, a farsi suo feto.
Baciarlo e ribaciarlo, notte dopo notte.  Fare l’amore come se non fosse lei né lui a dare ritmo e tempo. I corpi seguono solo capriccio di risacca, onda e vento.
Anche un porto e una barca.
Rinnovano i gemiti, nascosti sotto i gemiti dei cavi d’accioio tesi all’albero, strappati ad ogni raffica che li scuota e vibri.
“Ti racconterei la favola di un porto e di una barca a vela…”
Lo penso, ma non lo dico.
Sei troppo morbida nel sonno per aver alcun suono intorno. E poi l’età delle favole è passata da un po’ di tempo, occorrebbe essere al mare di notte su una barca all’ormeggio per giustificarne una.
Aver bevuto vino rosso fino a tardi, e fatto l’amore sul ponte protetti dall’ora fonda e dal buio di una notte senza luna e senza stelle.
No.
Aspetterò solo che ti svegli. Che ricominci ad impastare pasta con le dita dei tuoi piedi sul polpaccio.
Per riprendere allora, ancora questo mattino, aspettando si alzi e si tenda il vento, il mare con te.
Scioglierti come ogni mattino dalle mie corde.
E poi baciarti. Il mio buongiorno.
 
 

 

 

    

 

 

 

 

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