Mancavano ormai solo tre giorni alla grande festa per la cena a casa di Terzio Sabino. A cui tutta la nobiltà e i maggiori notabili, contribuenti e uomini di legge e di cultura e di città avrebbero partecipato con grande spolvero di ricchezze e lussi.
Si erano già celebrate, due giorni prima, con una partecipazione di folle assai superiore anche alle attese le esequie del Tracio. Per una notte intera, a funerali avvenuti e commemorazione affettuata, sciami di cittadini avevano percorso la città con grida e canti di osteria, ebbri per le libagioni eccessive che avevano accompagnato l’intera giornata della sepoltura.
Il Tracio si era convertito alla religione dei cristiani solo qualche anno prima di morire nell’arena e aveva preferito la sepoltura alla cremazione dei suoi avi. Ma del silenzio e del rispetto che tali esequie avrebbero richiesto anche nel lutto successivo il popolo non aveva avuto alcun riguardo.
Il popolo ha un lutto tutto suo particolare, quasi un esorcismo a volte, per coprire di oscenità e trivio il suo dolore, azzerarlo quasi gridando alla vita in ogni sua forma, anche le più invereconde, e la morte dell’eroe così popolare non si era sottratta nelle sue conseguenze a questo uso pagano.
Il terzo giorno prima della cena, lei, quella che mi fu sposa e fedele e che io avevo ripudiato solo pochi mesi prima, in un modo che cercavo ancora di non ricordare, giunse in città, accompagnata dal padre e, ovviamente, non fosse altro che in spregio e sottile vendetta su di me, da Aminah.
Erano stati invitati da Sabino, per l’importanza dei commerci del padre di lei, Militone.
Trovarono ospitalità nella casa romana di Paolo Latino, intimo amico di Militone sin dall’epoca in cui avevano avviato entrambi i loro primi commerci coloniali, sostenendosi a vicenda nell’affittanza delle navi e nel trasporto delle merci e degli schiavi. Paolo Latino ora era uno dei mercanti più apprezzati e riveriti, e in parte anche temuti, della capitale. Era fuori città da oltre un mese, e di lui si sospettava stesse facendo affari con le tribù ribelli a nord dell’Impero, ma nessuno aveva mai né esibito, né tanto meno cercato le prove che lo potessero fare accusare davanti alla legge ed al Senato.
Mezza città aveva avuto favori, o commerci spesso illeciti con lui, e nessuno mai aveva osato mettersi in contrasto con il suo potere, vuoi per gratitudine, vuoi nella speranza di favori promessi e ancora da mantenere, vuoi per la paura che, trascinato nel fango, potesse trascinare a sua volta i suoi detrattori e delatori, di cui magari custodiva illeciti segreti.
Andai in visita al padre della mia non più sposa nel pomeriggio, lasciando loro il tempo di prendere possesso della casa, riassettarsi dopo il viaggio in carro sulle strade sconnesse e polverose e avere modo di presentarsi a me in modo acconcio e appropriato tenuto conto del mio rango e del mio ruolo nel Senato.
Mi introdusse nella casa un servo che non conoscevo.
Trovai nell’ampia sala, seduti come se fossero nella loro propria casa e non solamente ospiti, quella che fu mia moglie e suo padre. Aminah era seduta al suolo, ai piedi della sua signora.
Sia Gaia, la mia sposa rinnegata che suo padre, Militone colsero, perché se lo attendevano credo, il mio correre con lo sguardo subito sul corpo della loro schiava. Mentre mi ritrovavo a fissarla, accorgendomi che loro avevano subito colto la fuga verso di lei dei miei occhi, mi detti dello stolto, dello scemo, dell’idiota.
Era evidente che loro si aspettavano questa mia istantanea reazione alla vista di lei, e non a caso li scorsi fissarmi attenti, quasi divertiti, rubandomi lo sguardo che debbo aver avuto quasi commosso e perso nel vederla lì accosciata seminuda nella corta veste.
Ed era evidente che ora il prezzo dell’eventuale riscatto di Aminah che mi sarei dovuto trovare a sostenere sarebbe enormemente lievitato, dopo questa mia conferma nemmeno minimamente mal mascherata di interesse, l’unico interesse in realtà che mi avesse spinto in visita a loro.
I convenevoli furono assai veloci, domande sulla vita loro al paese, a lei se avesse bisogno di nulla di ciò che aveva lasciato magari eventualmente nella mia casa, lasciandola. A lui, sui suoi commerci di cui in tutta sincerità avevo quasi ribrezzo. Si accompagnava spesso a due ricchi giudei, noti per la pratica dell’usura, che mai la legge era riuscita a far andare sotto giudizio. Loro lo finanziavano occasionalmente nelle spedizioni a volte, coi soldi estorti per il prestito a cittadini, in difficoltà o indigenza a causa delle vicissitudini non positive che attraversano molte famiglie romane nei giorni che vivevamo tutti.
Espedite che furono queste convenienze e formalità di buona educazione e dopo averli resi edotti assai velocemente circa le ultime sedute del senato e la fine tragica dei giochi, argomento di pettegolezzo che sembrò interessare loro assai più della crisi dello stato, non senza imbarazzo azzardai la richiesta che avevo a pulsarmi in petto e che stavano aspettando di udire certamente, dopo aver rimosso il velo dei convenevoli di rito.
“Mio caro Militone, ancora non so come ringraziarti dell’ospitalità con cui hai riaccolto nella tua casa Gaia” esordii, ruffiano e falso, ben conscio dell’enormità del prezzo a lui pagato, e da lui estortomi, perché io non fossi obbligato a metterla a morte o abbandonarla in una strada dopo la sua ubriacatura. Cosa che pur nella mia volontà di liberarmene mai avrei saputo affrontare serenamente.
Poi non so nemmeno ridire qui adesso quali furono le mie parole.
Come affrontai e formulai la richiesta che avevo in cuore, né quanto ci mise la mia voce a tradire quanto la volessi e quanto mi desse dolore il solo pensare alla possibilità di un loro rifiuto.
Non so più come affrontai e introdussi la questione. E so d’altro canto che ogni mia argomentazione, benché pensata, ripensata, quasi sezionata nella mente e a volte anche ad alta voce, girando da solo nervoso nelle mie stanze nell’attesa di quell’incontro anche il giorno prima, debba essere loro sembrata patetica, quasi ridicola e pretestuosa. Lo so per l’ironia che colsi nei loro sguardi e che nemmeno si premurarono di celare, il gusto laido di una vendetta che offrivo, senza prezzo da pagare per incassarla, a loro, quasi su un vassoio cesellato in oro.
Ma so che poco mi importò sentirmi quasi nudo e indifeso, aperto a qualsiasi ferita avessero voluto la sorte o i numi infliggere ai miei desideri. Maledii in cuor mio la mia stupidità quando avevo lasciato a lei Aminah in dote e in dono. E maledii Aminah stessa, per il ridicolo in cui mi sentivo quasi affogare, durante il loro umiliante silenzio che seguì alla mia richiesta.
Che Militone, bastardo da par suo, si concesse anche il lusso dell’attesa prima di parlare, sapendo che così sarei impazzito di tensione.
Chiesero un giorno di tempo, per decidere se da Aminah Gaia avrebbe potuto separarsi. E per comunicarmi l’eventuale prezzo del riscatto che però, in ogni caso, avrebbe avuto una clausola precisa e irrinunciabile per loro, se me l’avessero mai rivenduta.
Che io mi impegnassi sui miei Lari a non affrancarla mai, nemmeno in punto di morte, mia o sua, dalla schiavitù. Che mai potesse diventare donna libera e che il suo ruolo nella mia casa, implicitamente era su questo che mi volevano obbligare, mai sarebbe stato quello della concubina o, ancor più, della sposa. Che fosse a vita, davanti alla città e ai cittadini liberi, schiava tra le mie schiave.
“..che poi mi è giunta voce di una tua nuova schiava assai bella, che hai battezzato Rebecca, dicono, perché non ce la proponi in baratto in aggiunta al prezzo se ti dovessimo richiedere accontentandoti il riscatto…” soggiunse quasi ridendomi in faccia Militone, sfoderando l’occhio più lubrico e viscido che mai gli avessi conosciuto. Poi davvero scoppiò, e senza alcun riguardo per la mia veste di senatore, rise.
Mentre chiedevo Aminah, arrampicandomi su fili e argomentazioni di ragioni sempre più fragili e sottili perché mai avrei ammesso davanti a loro la vera ragione, ben chiara del mio chiedere, insistere e accettare l’umiliazione di quella situazione, Gaia, in evidente spregio, o forse solo per vizio e libidine acquisita in modo ancora maggiore in quegli ultimi mesi, non smise un attimo solo di giocare coi capelli di lei lì accosciata ai suoi piedi. Di stuzzicarla muovendoli nudi lungo la coscia, carezzandola lubrica, scostandone la veste. Nè di arricciare i capelli della schiava sulle sue dita facendone anelli castani a cingersi l’indice o il medio o l’anulare.
Al moto dei suoi piedi la veste di Aminah risaliva a volte.
Lasciandole mude le cosce fino al sesso.
E scoprii in Aminah, che in quei momenti con gli occhi abbandonava i miei, e i suoi li abbassava con rossore, e si riconduceva la veste a posto sulle cosce nude, dopo che il piede di Gaia aveva giocato a stuzzicare, qualcosa di nuovo. Una strana e inedita in lei sorta di pudore.
Che mi afferrò il respiro. Azzerandolo.
Provai rabbia per Gaia che la esibiva e celebrava il suo possesso quasi umiliando me ed Aminah in un gesto solo.
E provai un moto di tenerezza infinita per lei invece. E il suo nuovo fragile pudore.
Pudore di me, di come i gesti di Gaia, sulle cosce, o sui capelli o con mano che a volte le poneva aperta, più in segno di possesso che di affetto sulla gola e poi a scivolarle sul seno sotto la veste, potessero ferirmi, nel vederla umiliata. Ora, in quello che dall’inizio era stato senza problema alcuno il suo ruolo di schiava nella nostra vita.
Decisi che in qualsiasi modo l’avrei riportata a casa.
Lasciata la casa di Paolo Latino, congedatomi da loro quasi in fretta e furia, che un secondo solo ancora non sarei resistito oltre trattenendomi, ero abbastanza agitato E ripensavo a ciò che avevo detto, o dimenticato nell’agitazione di dire.
E tutto mi sembrava di averlo davvero gestito nel modo peggiore.
Fu dopo un centinaio di passi veloci e lunghi, che il rumore di passi affrettati dalla corsa alle mie spalle sul selciato sconnesso mi obbligò a voltarmi.
Sudata, spettinata, la veste scossa dalla corsa così veloce, ebbi di fronte lei, Aminah.
Nemmeno ebbi tempo di chiedermi o chiederle come avesse fatto ad uscire indisturbata e non vista dalla casa, che senz’altro non era né col consenso di Gaia né con quello di Militone che era giunta fino a me adesso. Si lasciò stringere e ne ritrovai all’istante l’odore, le pelle, il sudore, l’alito caldo a riscaldarmi la veste dove aveva affondato il viso. Perle di lacrime bagnarono la mia tunica bianca.
Si lasciò stringere affondando nell’abbraccio, e la sentii tremare.
La strinsi, e nello stringerla, nel misto di tenerezza e desiderio violento che mi colse e si mescolò senza ragione, sentii il mio sesso reclamarla, chiuso tra me e lei abbracciati, ventre a ventre.
Il ventre suo a quel mio risveglio spudorato, spingere, ingordo come lo conoscevo in lei.
Fu lì, in quel momento, certo che a costo di assoldare sicari io l’avrei riavuta, che lei e Rebecca per la prima volta si videro.
Rebecca che rientrava dal mercato coi fiori per adornare la mia casa stretti in grosso fascio tra le braccia, ebbe un attimo di rabbia nello sguardo.
Prima che al mio fissarle gli occhi lei stessa li abbassasse e quasi spegnesse la luce nei suoi. La chiamai. Venne vicina.
Le dissi che Aminah, lei la percorse con lo sguardo nascondendo ogni emozione, sarebbe ritornata nella mia casa. Le dissi che di lì a massimo due giorni Aminah sarebbe ritornata, anche se, dicendolo, io per primo non sapevo come sarei riuscito e se mai sarei riuscito, e la informai che da quel giorno avrebbe diviso stanza e incombenze con lei.
Le vidi guardarsi, apparentemente senza espressione alcuna che tradisse ora la benché minima emozione in nessuna delle due.
Poi sciolsi dalle mie braccia Aminah, che corse verso casa per non fare scoprire la sua fuga. La seguii con lo sguardo finche scomparve in fondo alla stretta via. Svoltando dietro un muro.
Quando girai lo sguardo indietro, anche Rebecca ormai era andata. Con i suoi acquisti profumati verso casa.
Mi ritrovai da solo nella strada.
Pensai a quanto sarebbe stata lunga la mia giornata, in attesa della risposta di quei due alla mia richiesta. Pregai che la loro avidità incontenibile mi fosse questa volta almeno buona alleata.
E immaginai la cena da Terzio Sabino, ridendo dei pettegolezzi che quella sera, se tutto fosse andato come desideravo io, avrei ingenerato nei commensali.
La Roma più ricca, potente, oscena lasciva e dissoluta e, nella sua decadenza, più volgare.
Riunita a celebrare usanze e fasti che io sentivo con malinconia d’animo destinati a scomparire e declinare, anche se ormai ridotti solo a pantomima.
Senza nemmeno dover chiudere gli occhi per immaginare sentii.
Il mormorio di voci.
Il volgere degli sguardi di tutti, al nostro ingresso, a cercare conferma visiva e inconfutabile ai pettegolezzi da serva degli uomini più potenti della capitale.
Quando, seguito da Rebecca e da Aminah, vestite non da schiave ma con l’eleganza, la ricchezza di tessuti e ori, e lo stile che mai avrebbero avuto le loro ricche e viziose dame, o le loro puttane arabe prezzolate e odorose di resine orientali, io avrei fatto, sorridente, il mio ingresso nella sala.
 
 
 
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