L’ultimo dell’anno sarebbe caduto di venerdì, quell’anno.
Per la precisione venerdì 12 giugno.
E ricominciato, l’anno, solo dopo mesi.
Quello scolastico, non quello vero, quello che misura i tempi familiari
e lascia i figli a casa tutto il giorno da gestire.
Prima dell’estate, perché le scuole elementari chiudono allora. Giorno
più, giorno meno.
Sabato 13 a Bosco in Città, ognuno porti da mangiare e da bere, la mamma
di Martino e il papà di Bea – che poi all’anagrafe fa Rosa Beatrice ma
Bea suona così bene e per tutti è Bea – coordinano.
Coordinano.
La parola più assurda del dizionario italiano se riferita ai genitori di
30 bambini di quinta elementare.
28 a dire il vero. Perché Jiao è in Francia coi genitori emigrati e
Maria B. - detta B. per distinguerla da Maria T., che oltre a essere una
bionda e l’altra mora bi e ti aiutano a distinguerle – ha cambiato città
in quarta.
- Ognuno porti qualcosa, lo scopo è festeggiare e salutarci, bambini e
grandi prima dell’estate, ognuno cucini magari piatti del suo paese,
visto che la classe era la torre di babele prima di unirsi nel leggere e
scrivere in italiano – aveva sorriso l’insegnante.
Così Angelo, detto “papà di Bea”, figlia unica, separato da sei anni, e
Simona, detta “mamma di Martino”, secondogenito suo e dell’avvocato
Staderini, esponente cittadino di poco conto di un partito di governo,
che come diceva lui “non sono mica razzista, è solo che non siamo fatti
per mischiarci così, razze, culture e religioni, senza una regola
precisa”, si ritrovarono a gestire la lunga lista della spesa
collettiva.
I genitori di Annina il tabulè, che lei aveva imparato a Jerba l’anno
prima e le veniva così bene, che “speriamo che i genitori marocchini di
Hana lo trovino buono e non facciamo brutta figura”. Quelli di Eva
grandi teglie di lasagne fatte dalla tata, anziana donna emiliana dai
seni possenti sempre sul punto di esplodere sotto la divisa, perché loro
erano a Miami e tornavano solo la sera, quelli di Antonio al tramonto,
sulla griglia, le salamelle venute in auto da Matera col fratello, e
così via.
Poi gli insegnanti col registratore e l’amplificatore. E la chitarra e i
flauti dei bambini che si erano esercitati mesi ed erano eccitati da
settimane per quel concerto. Ai vini ci avrebbero pensato proprio
Angelo-papà-di-Bea e Simona-mamma-di-Martino.
Angelo con la sua abbronzatura naturale, nato in Sicilia, sangue arabo
nelle vene e nei tratti forti e secchi del viso, il naso dritto, una
spada tra gli occhi neri, avrebbe pensato ai rossi.
Rossi come il sangue delle vene, come la storia antica, come il vento,
il sole, le mani tagliate dal sale e secche di suo padre dopo tanti anni
sul mare.
Simona, chiarissima di capelli, pallida. Bianca come le foglie ancora da
schiudersi dell’insalata marzolina, l’aria un po’ malinconica, così in
contrasto con la solidità ostentata del suo impegnato e impegnativo
marito - che, causa la forte differenza di età, a volte la gente
dubitava fosse tale il loro rapporto parentale - per contrasto solo i
bianchi, mossi, vivaci, sapidi di frutta al palato. Allegri come lei in
realtà ,dietro quegli occhi tristi, era.
E poi, ma quell’incarico era per tutti, acque, succhi, bevande gassate.
– Ma poche perché piacciono ai bambini, si sa che la pubblicità la fanno
apposta, ma è provato che fanno davvero male – aveva detto in riunione
la mamma di Luna, giovanissima, di famiglia nobile, la figlia nata da
lei sola, tornata incinta del padre della bimba che nessuno conosceva da
ragazza da una fuga in India. Lei, così eterea, a dire il vero un poco
spiritata, a volte, quasi smarrita in chissà quali vertigini, ma nessuno
osava dirlo o farlo notare, per non fare brutta figura.
Ad Angelo, Simona, che lui non chiamava mamma-di-Martino, piaceva.
Piaceva da quando l’aveva notata il primo giorno di scuola. Rassettare
con le dita lunghe, chiare e affusolate, al figlio che si scansava un
poco vergognoso, il ciuffo di capelli lisci e castani che gli calava
sugli occhi. Lei si era chinata e lui non aveva potuto fare a meno di
notare la tensione dei jeans dalle cosce su su fino alla vita. La forma
perfetta aveva fatto sì che lo sguardo indugiasse ancora, cogliesse
l’orlo nero sottile di una mutandina affiorare da sotto, più alto della
cintura e tra jeans, cinta, striscia nera e camicetta sfilatasi
nell’abbassarsi, la pelle chiarissima e la fossa appena segnata delle
reni.
Quando Simona si era rialzata aveva colto il viso forte, scuro e gli
occhi neri di pozzo fissarla, ed era arrossita. Non aveva provato, e se
ne sarebbe chiesta la ragione dopo, né fastidio né imbarazzo a sentirsi
guardata così. Anzi, quegli occhi che dopo aver indugiato in modo così
sfacciato e naturale sul sedere, sul corpo, sul seno, sul viso, ora
erano fissi nei suoi le avevano dato un’emozione che aveva dimenticato
da tantissimo di poter avere.
Era arrossita ma non aveva sentito l’esigenza di celare nemmeno quel
rossore.
E ora, a scuola chiusa, prima di partire coi figli a seppellirsi due
mesi nella casa del mare, dove il marito l’avrebbe raggiunta solo ad
agosto, si erano trovati cambusieri, complice un insegnante forse non
così distratto e assai più generoso e malizioso di loro stessi, per una
festa di fine scuola.
A dire il vero Angelo era sempre stato assai discreto.
L’aveva riaccompagnata in auto a casa dopo le riunioni di classe un paio
di volte l’anno.
Nei due giorni a settimana in cui era lui e non la custode a portare Bea
a scuola aveva fatto in modo di incontrarla quasi sempre ma, causa il
lavoro, poche volte erano riusciti a bere almeno un caffè insieme. Poi,
strano a dirsi, il marito di lei a lui metteva soggezione, in realtà. La
laurea, la professione, l’età, l’aver avuto amore e passione di una
donna così bella e giovane, la sicurezza ostentata anche alla tv locale
nei dibattiti su crimine e immigrazione. Provava fastidio a sentirlo
parlare di quegli argomenti e intuiva che prima degli arabi e dei neri
(l’avvocato era politically correct ovvio, e rimarcava, scandendo,
l’assenza della gi nel dire neri) di certo a dare fastidio a quell’uomo
erano stati quelli come lui, saliti a Milano da chissà dove.
Per cinque anni aveva corteggiato con pudore Simona, o per meglio dire
aveva avuto ogni volta che poteva per lei almeno un’attenzione, senza
nemmeno rendersene conto.
E ora in auto, insieme, a scegliere i vini.
Emozionati per la cena al parco come se fossero stati loro i bambini.
Che poi era la piccola magia di quella cena in quel parco a Milano. E i
genitori, chi prima e chi poi si erano lasciati coinvolgere a dare con
le loro ricette anima e corpo a quella festa. Tavoli di legno per una
settantina di persone dai dieci anni ai settanta. Unite per un addio
prima delle medie.
Così si trovarono nello spiazzo a lato della statale, fuori città, a
parcheggiare.
Scansando chi in quello spiazzo sette giorni su sette, dal mattino alla
sera, lavorava.
Donne e uomini, spesso dal sesso indefinibile, padroni da anni di quella
parte di parco fino alle due cascine, ai tavoli e alle griglie, dove, il
comune permetteva feste, picnic, serate. Come la loro.
Avevano scaricato quasi tutto, anche i bambini, quando l’avvocato
Staderini offrì il suo piccolo spettacolo personale. Si scagliò,
scaldandosi da solo contro il degrado, le negre con la g, che forse
erano negri e lo spettacolo che davano ai bambini. Si scaldò fino a
gridare, incurante che i suoi nemici fossero scappati, troppo
preoccupati dei permessi di soggiorno per reagire e litigare.
Fu quella sera.
Dietro la cascina, nascosti da un muro e dal buio agli occhi degli
adulti e dei bambini.
Con ancora in testa l’avvocato con le vene del collo gonfie che gridava
negri, froci, culattoni.
Che Angelo prese per mano Simona che piangeva poco lontano, mentre la
festa scemava. Che la portò via senza farsi notare.
Ed ebbe il coraggio. Di baciarla, stringerla, prenderla con passione,
rabbia e disperazione, nascosti, in piedi dietro a un muro rosso di
vecchi mattoni. E di farsi baciare e guidare nel ventre di lei dalle sue
mani.
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