La poltrona rossa di cuoio

 

    

 

 

Nemmeno lei sapeva il perché in realtà.
Né come fosse cominciata. O da dove fosse venuta quella voglia strana, improvvisa, irrinunciabile.
Un poco sperimentatrice comunque lo era stata sempre. Sin da bambina.
Ogni nuova moda, possibilmente la meno tradizionale o logica, ogni nuovo sapore, ogni gioco nuovo, magari proprio quello più da maschi a dare un che di contro corrente alla sua scelta.
Ma com’era successo che si trovasse lì adesso, legata per i polsi ai braccioli di quella vecchia poltrona? E bendata?
L’odore del cuoio vecchio fortissimo a riempirle il fiato.
Le piccole rughe e crepe del cuoio, usato ed abusato per molti anni, a contatto della bocca e delle labbra ora.
Sentiva nettamente l’aria fresca, ora, doveva esserci una finestra aperta nella stanza, forse quella che aveva visto entrando alla sua sinistra, coi tendaggi di velluto legati ai lati da un nastro con una morbida e sontuosa nappa rossa. Sentiva l’aria arrivare discontinua, a ondate come la risacca, con ritmo lento, irregolare ma sicuro, a lambirle le cosce e il taglio della fica esposto oscenamente in quella posizione alla carezza ondosa e fresca.
Intermittente. Fuori doveva essersi alzato, come usa a primavera al pomeriggio, il vento.
Sentiva la pelle morbida, un poco consumata della poltrona oltre che sotto il viso, sotto il seno, aveva i capezzoli posati sul cuoio marrone, reso morbido e quasi docile da anni di uso continuato, di almeno un paio di generazioni di inquilini della casa.
Pensare ai suoi capezzoli così, presenza orgogliosa contro la pelle sella poltrona, in quel momento, glieli fece percepire come se solo allora, all’improvviso, si fosse resa conto di loro, di averli e di quanto fossero tesi e duri. E sensibili a quel contatto che avevano scaldato comprimendo.
Cosa ricordava della stanza ora?
Nel silenzio di pesanti tappeti e al buio della sua benda ?
Francesca si aggiusta un poco solleva le spalle a cercare di diminuire la tensione delle corde, nappa rossa morbida ma che col tempo ormai sente dura, legate ai polsi. Tensione che comincia a farle dolere un po’ la schiena.
Quanto tempo è passato dalla sua entrata nella stanza ?
Francesca ne ha perso se cerca di ricostruirlo a ritroso ogni dimensione.
Il tavolo e quelle sedie messe in cerchio che l’avevano stupita alla sua entrata. Erano di legno e cuoio. Dello stesso colore della poltrona che ora è la sua prigione. Messe ad emiciclo sul tappeto, le sedie, alte, coi braccioli anch’essi ricoperti di spondine di cuoio cotto e segnato, circa tre metri al massimo, in semicerchio, sul grandissimo tappeto antico, dalla grossa poltrona.
Poi Mauro che la fa inginocchiare, le sfila la camicetta dopo averla sbottonata, è abbottonata fitta fitta con picolissimi e fittissimi bottoncini di madreperla biancolatte, la fa sfilare solo da una gamba le muatndine che ha voluto bianche e di cotone, rigorosamente.
Poi in ginocchio ad accogliere l’abbraccio delle nappe rosse ai polsi e poi la tensione dei legacci a farla precipare a seno nudo, viso per primo sull’ampia seduta della poltrona ci cuoio vecchio.
In quel momento la poltrona nella sua mente, e nell’immagine cieca che ora le riaccende la memoria, perde quasi per metamorfosi magica ogni senso reale, e diventa, al tatto cieco del viso e del seno nudo un altare.
E comincia, mentre un alito d’aria le fa rabbrividire la schiena e le disegna il corpo come fa normalmente il gelo sulla pelle nuda, nella sua testa, a ripercorrere le ore e i giorni che l’avevano portata lì.
Il suo amore. Suo.
Posseduto, e da cui si è fatta possedere da tempo, con gelosia, totalizzante di possesso.
La richiesta che Mauro le aveva fatto, dapprima quasi titubante.
Lei conosceva bene quella lentezza e quel tono di voce. Se lui aveva qualcosa da farsi perdonare o qualcosa da dire o chiedere, di cui dubitava della possibilità di condivisione, il tono e il corso delle parole era proprio quello. Ma lei aveva detto sì.
E lui aveva barato, di quel sì probabilmente non aveva mai nemmeno dubitato.
Aveva detto sì, dapprima abbassando il viso, poi rialzandolo quasi di scatto a infiggere lo sguardo in quello del suo uomo, occhi di sfida, nascondendo, se dubbio v’era stato, il dubbio improbabile quasi nell’ironia e nel sarcasmo.
Aveva detto sì anche perché oltretutto non era da lei dire no e lui lo sapeva.
Ripensa allora che forse un po’ bastardo lui lo era stato…
Come sempre.

L’aria è più fredda e forte adesso sulla sua schiena seminuda e sulle cosce e sul sesso esposti. Ha solo una gonna, altro sì concesso a lui quello sul come si sarebbe vestita.
La gonna è larga, di cotone, plissettata, un po’ da collegiale inglese, certo ancora per poco in sintonia coi suoi anni, aveva pensato indossandola, sollevata ora come un drappo, ripiegato, sulla sua schiena. Delle mutande sente il tessuto intorno alla caviglia destra e sotto, tra caviglia e suolo, tessuto accartocciato, morbido.
Averle lì così la fa sentire ancora un po’ più nuda. Più che a non averle affatto.
Un laccio bianco rilasciato, una collana, una minuscola cavigliera di elastici e cotone che sa di bucato fresco e di lavanda secca a profumare il cassetto.
Il culo è nudo e la gonna forse, se lei muovesse con decisione il bacino che ha libero da qualsiasi legaccio, solo i polsi la inchiodano alla poltrona, ricalerebbe da sola a proteggere la sua nudità in qualche modo.
Però Francesca non si muove.
L’aria è più forte sì.
Sembra di essere in corrente. Forse tra la finestra e la porta, ma ciò vorrebbe dire che la porta è aperta ora.
Lei sforza le orecchie a cercare il minimo rumore nella casa silenziosa.
E’ un respiro o se lo sogna solo?
E se era la porta, aperta a fare riscontro d’aria attraverso cosce e fica fino alla finestra, chi aveva respirato?
Vorrebbe accostare le gambe, d’istinto, per educazione ricevuta lo farebbe, non sono legate, solo i polsi la tengono prigioniera e inchiodata al piano della poltrona, ma ha promesso e lei è rimasta in fondo, come lui sa e ripete con reciproco compiacimento a volte, una “brava bambina”…
E una brava bambina onora e non viola le promesse.
Nemmeno quelle estorte maliziosamente.
E senza un motivo apparente allarga ulteriormente le ginocchia sul tappeto.

La musica la fa sussultare.
Perché arriva improvvisa.
Perché è la certezza che ora lei, nuda e legata, non è più sola nella stanza. Che il respiro, i respiri forse erano reali.
Ed è così forte in lei la stretta allo stomaco e la voglia, subito frenata, di serrare a quel suono le cosce e proteggersi in qualche modo che nemmeno si rende conto di che musica sia.
Il tempo ha dimensioni strane.
In quel silenzio rotto solo dalle note, in quel buio innaturale, con le braccia che cominciano a dolere veramente sembra trovare un attimo infinito di sospensione. Quanto dura un’emozione, e la paura? Quanto ci vuole prima che cominci a sciogliersi e farsi liquida nella metamorfosi in voglia e in eccitazione?
Inconsciamente ancora le gambe invece di serrarsi scivolano a lato, impercettibilmente, per quel poco che lo permette la posizione.
Comincia allora a sentire forte e inconfondibile, nettamente, nella stanza quel respiro di cui aveva dubitato prima. Nessun dubbio ora.
Il “suo” respiro. E un altro. Distinto e netto.
Sembra il suo alito umido contro uno specchio ghiacciato, sale dal ventre più ancora che dai polmoni, da un ventre che si scopre teso, contratto di tensione, e pulsante al ritmo caldo umido del fiato.
- Non è possibile che il mio respiro sia questo battere d’aria di cuore che sento – le viene da pensare - Dev’essere Mauro -
- E’ lui sicuramente -

Riconosce, dopo un fruscio attutito del tappeto, il tocco delle mani. Quanto le sembrano dolci in quel momento, più di quanto lo siano mai state. La seta che le scivola sul viso dopo che le mani l’avevano sollevato dal cuoio, tenendolo ben fermo con davanti, sulla seduta, il viola scuro della sottile sciarpa di seta posata quasi a tagliare il cuoio.
- Vuole bendarmi – pensa.
E, come obbedendo ad un ordine silenzioso non volge a lato o indietro il capo, non gira il viso, non lo muove a cercare ancora le mani o con lo sguardo il conforto di vederlo lì vicino. Chiude soltanto gli occhi mentre vede salire la striscia viola, ad affondarle dentro naso, occhi fronte e metà viso.
Poi una mano posata sulla nuca riaccompagna morbida ma decisa la calata del viso sul cuoio.
Francesca ripoggiandosi sulla poltrona con la bocca e le guance posate si accorge solo ora di come prima, inavvertitamente, a bocca aperta nell’attesa, l’avesse bagnata proprio lì, sotto la bocca posata, con la sua stessa saliva. Sentire la saliva sotto il viso le causa un brivido improvviso, il cuoio sembra gelido e morto così bagnato.
Sente senza possibilità di dubbio dal freddo che l’aria causa quanto colata non solo dalla bocca sia la sua voglia. Sa senza toccarsi di quanto è aperta, schiusa da sola, umida e lucente al taglio adesso la sua fica.

- Vuoi? –
La voce di Mauro improvvisa la strappa dalla percezione dei suoi umori, sussulta e si contrae di scatto sulla poltrona, sfrega il viso nel sobbalzo, tende fino a dolerle al polso il duplice laccio porpora.
Non arriva risposta alla voce giunta da oltre la spalliera della poltrona, oltre il suo capo.
Risponde il silenzio forse.
O forse il rumore di passi affondati lenti e morbidi, un po’ pesanti forse, nel tappeto, alle sue spalle.
Forse non era per lei, si chiede adesso, quella domanda a cui testarda non aveva voluto dare risposta.
Due mani si posano parallele sul suo culo, di palmo piatto, due mani calate probabilmente verso il basso di fronte al corpo. Sente la punta delle dita dove la natica si fa innesto con la coscia, al taglio della piega. I pollici divaricati, larghi sui lati. Come se il suo culo leggesse ad occhi chiusi quelle dita. O quelle mani leggessero il suo culo imprimendosene la forma e le anse accogliendolo così aperte.
Le sente scivolare e convergere al centro, fino a toccarsi di costa tra di loro, o almeno così lei crede.
Poi serrarsi a stringerle la carne. Divaricarla, aprirla come un frutto si spacca sul ramo, maturo al punto di cadere. Due dita, quelle dove le mani si uniscono, le dita più corte, che cadono sul taglio e si bagnano di lei così facendo, e lei le sente posate sulle labbra e lei d’istinto alza il culo.
Sente il respiro di Mauro farsi più tangibile e forte, sente e quasi vede il fiato del suo uomo, lì in piedi Lo immagina seguendo quel respiro poggiato alla spalliera, come alla balconata di un teatro, sopra la sua testa, sopra la benda, sopra i lacci che le ha imposto prima. Sente o crede di sentire.
E come una brava bambina ora gli farà vedere.
Alzando il culo sotto quelle dita.
Sperando che lui guardi, veda, che il suo culo che si alza e offre la fica umida e arresa gli esploda quasi negli occhi, nella stretta delle dita.
Accettandone la morsa sconosciuta, il divaricare la sua carne, l’indugio dove lei si fa aperta e sembra colla ora.
Vorrebbe dire a Mauro – Guardami! E’ quello che volevi –
Ma tace.
Ascolta il respiro sopra, davanti a lei, sulla spalliera fatta palco, che ora è fitto e denso, accelerato e amplificato dal silenzio. Lui non la toccherà lo sa.
Sa anche che non la fermerà, adesso.

Dietro le mani la tengono divisa, le sembra che l’uomo, le mani sono troppo rudi per essere di donna ora ne è certa, voglia squartarla, aprendola fin dove lo permette il taglio delle natiche e della fica. Le dolgono i muscoli interni delle cosce aperta da quelle mani così padrone adesso.
Lo sente posarsi. Solo la punta, calda, con dolcezza quasi, infinita inesauribile calma, in contrasto violento con la durezza delle mani che ha conosciuto poco prima.
Lo sente aprirla, quasi timidamente entrare di punta, di testa, scostandola assaporandone l’umida morbidezza, lavandosi di lei e cercando di avvolgerla quasi intorno a se, come se il taglio in punta fosse un occhio curioso che assapori la scoperta, per fermarsi subito negandole e negandosi un prematuro e atteso affondo.
Sembra che batta come un cuore in punta, posata a scivolare fino a nascondersi improvvisa. Lei alza i fianchi tendendo ulteriormente la corda ai polsi, serra le labbra per non dire nulla né far rumore di voglia alcuno. Nulla che dia un segnale di come lei stia aspettando e trattenendo ora la sua voglia.
Poi, sospesa sul seno posato, i fianchi alti allo spasimo della tensione dell’addome, accoglie l’uomo di cui non conosce né la voce né il viso.
Accoglie la salita fino al contatto delle cosce da dietro contro le sue.
Poi i movimenti secchi, decisi, violenti, il battere di martello sopra il ferro, la prevedibile salita e urto, che ogni volta le costa fatica trattenere dentro, negando a sé e a loro la sua voce o un suo qualsiasi gemito. L’uomo la riempie e lei si allarga, docile, accogliente, anticipandolo con l’altalena delle reni, lei si adegua, si adagia fluida e si sagoma come cera molle alla sua risalita.
Ogni volta le sembra sempre più suo, come se fosse del suo corpo stesso, quel gioco di carne che le sale dentro, lo sente come se fosse lei a rivoltarsi a rigirarsi, a riassorbire o liberare un pezzo di se stessa, a muoversi autonomo dentro di lei, appeso ai nervi.
Lui accelera.
Come accelera e non ha più pudore di essere trattenuto o nascosto il respiro di Mauro sopra la sua testa.
Ora non ha più ritmo altro che la frenesia e il desiderio di accelerare oltre il possibile ogni sfregamento. Dura poco.
Sente il calore violento, dopo una frenata a percossa e una due tre brusche ripartenze, allargarsi come olio, alto, in fondo, e si morde il labbro inferiore per non esibire né ammettere in quel momento, se mai ci riuscisse o potesse o sapesse farlo, il suo piacere.
Ora i respiri affannati sono tre, distinti a tratti, poi fusi come tre armonici nella stanza. All’inizio coincidono o sovrappongono davvero quasi i ritmi.
Sente l’uomo scivolarle fuori. Accompagnato dalla risacca del suo sperma che comincia come candela spenta, tiepida poi fredda al contatto dell’aria a colarle sulle cosce.
L’unico respiro ancora affannato ora è solo il suo. Quello dei due uomini si è fatto muto, si è stemperato allungando il ritmo e diminuendo l’onda.
Sente solletico dove la coscia si bagna, quasi prurito, si asciugherebbe se potesse o forse lo stenderebbe con le dita per attenuare quella sensazione che non può controllare.
Mauro ha avuto quello che voleva. Pensa.
Dentro di sé quasi sorride ora. Per metà è anche orgogliosa.
Pensa che mai avrebbe immaginato anche pochi mesi prima di trovarsi lì in quella situazione, in quel capriccio. Pensa alla gelosia di Mauro e a come il mordersi il labbro davanti a lui fosse anche stata una sua piccola sottile e crudele vendetta.
- Mauro avrà visto quel morso per trattenere il piacere e ne avrà sofferto.
Perché un conto è dire – ..giochiamo. Ora ti sfido..-
E un conto è vedere il mio labbro morso a sangue mentre godevo -
, pensa Francesca e sorride.
- ...giochiamo. Ora ti sfido...- aveva detto lui proponendole una domenica mattina pigra, dopo l’amore del risveglio, a letto, quella gita.
- Ma se sei più geloso di una scimmia, che idea del cavolo ti sei fatto venire, dopo trenta secondi scommetterei che mi urli di smettere e mi porti via! –
- Scommettiamo? Che sono tutte scuse le tue perché non oseresti mai, verginella timorata e timorosa come sei .-

Pensa a questo Francesca, dopo, ancora legata per i polsi, con la benda sul viso mezza crollata da un lato per il suo sbattere e sfregare il viso sul cuoio sotto i colpi.
- Gli avrà fatto male almeno un poco, si domanda ora, vedermi arrivare fino a qui… Ma lo sapeva che se mi sfidano io non posso tirarmi indietro -
Francesca aspetta ora che nel calmarsi del suo respiro lui cominci a liberarle le mani che le sono diventate probabilmente bianche a furia di essere strette dai legacci, sempre più stretti dopo ogni suo inarcarsi. Sente di ogni colpo a riempirla la scomodità a posteriori, nel dolore alla schiena, nel bisogno di dare riposo alle scapole forzate dalla posizione, dai movimenti e dai legacci.
Sente tutta la dolente scomodità di quella posizione in cui Mauro l’ha offerta.
- Ma ti decidi a liberarmi che voglio anche asciugarmi, non ce la faccio più se non mi asciugo o almeno mi gratto tra le cosce, soffro il solletico e non riesco a togliermelo così lo sai bastardo ! – dice abbozzando un sorriso sotto la benda quasi caduta completamente.

Mauro non le risponde.
E dopo un attimo, con lo stesso tono di voce di mezz’ora prima:
- Vuoi ? –
Francesca sente la schiena diventarle pietra. Si irrigidisce come un sasso.
Poi, prima un fruscio di tappeto quasi impercettibile, poi due mani fresche, appena appena sudate per la tensione forse, meno sicure di sé delle due precedenti, posarsi calde improvvise, aperte, su quel sasso.
Cingerle i fianchi, aperte, le dita a raggio, allargate e poi stringerli come stringerebbero ai lati un sacco. Mentre sente una bocca posarsi aperta a mezza schiena, due labbra secche e il pungere di baffi corti e duri e un tampone umido e turgido di lingua calda correrle lungo le vertebre, fino a raggiungerle la nuca e indugiare poi sul collo, pensa alle sedie. Quante erano in cerchio lei proprio non se lo ricorda.
Quante erano. Non le ha contate nello stupore di tutto l’ambiente all’inizio, al suo ingresso.
Adesso sa.
Sa che una per una, una dopo l’altra, si sposteranno tutte.
Che sulla battuta di cuoio morbido una dopo l’altra mostreranno l’avvallamento lasciato da chi ci era stato pazientemente in attesa seduto sopra. Che l’avvallamento risalirà e si ricolmerà ridando ad ogni sedia la sua originale forma mentre chi le occupava si occuperà per lei. Quando verrà il suo turno.
E ogni volta i passi avranno ritmo diverso, peso e fruscio diverso alle sue spalle.
Mani diversi a frugarla.
Ritmi diversi a romperle il respiro e le reni. Dolci o violenti. Senza alcuna logica di alternanza.
Solleva, nel secondo in cui realizza e vive in anteprima col pensiero tutto questo, i fianchi. Mentre il qualcuno che le ha appena lasciato una scia di saliva lucida a dividerle scapole schiena reni e culo,da dietro l’asciuga tra le cosce risalendo paziente dalle ginocchia alla fica sinistra e poi destra, tre volte, con un fazzoletto. E indugia carezzandola con questo.
Riafferrata per i fianchi le strappa il suo primo piccolo urlo affondandole nel ventre.
La resa.
Il secondo -vuoi ?- le finalmente sta strappando un urlo. Ne seguiranno altri, sempre più incontrollati e incontrollabili, liberi e quasi animaleschi.
Mauro ha una lacrima, una sola goccia salata che dopo un’esitazione gli scivola con anse di viso fino al mento, che lei non vede scendere, bendata malamente, ma ad occhi chiusi, rigorosamente, come una brava bambina sa di dover fare e stare, sotto i colpi, in quel momento.
Lui si asciuga col dorso della mano. Meccanicamente.
Colpa delle nuove lenti a contatto.
Probabilmente.




 

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