Nemmeno dette uno sguardo alla busta sigillata con la ceralacca.
Che infilò sotto la blusa, nascosta tra la camicia e la pelle prima di salire sul cavallo che gli veniva porto. Dopo le prime ore di corsa sentiva il sudore del collo del cavallo staccarsi a gocce e sferzargli il viso.
Cavalcava veloce, basso sul collo e alto sulla sella come se dalla velocità di quel viaggio dipendesse la vita di qualche persona e non solo la missiva del principe alla zarina che da mesi si era rifugiata nel palazzo al lago dopo l’abbandono da parte del consorte. Sentiva il sudore dell’animale a cui aderiva e la cui forza sentiva riverberarsi nel suo corpo ad ogni scatto e affondo degli zoccoli sul suolo ancora ghiacciato per l’inverno, come se fossero un corpo solo adesso.
Cavalcatura e messaggero in un’unica nuvola di sudore condensato in gocce fredde nel gelo della corsa.
Scese di lato, arrivato, fermando il cavallo con decisione e forza sulle briglie, tenendosi con una mano alla sella e alle briglie unite e, ritrovatosi in piedi a terra si annunciò alla vecchia donna di servizio che lo accolse davanti all’ingresso della villa.
– Piotr prendi il cavallo e governalo- furono le uniche parole della vecchia allo stalliere, poco più di un bimbo, avrebbe potuto essere il nipote della veccia fantesca, mentre faceva strada al messaggero e lo conduceva nella sala. E il messaggero d’amore, perché tale si sentiva il messaggero sorridendone dentro di sé un poco compiaciuto, l’uomo dalla blusa con la missiva sotto la camicia insomma, in poche parole le comunicò lo scopo della visita. La consegna della lettera alla giovane donna. Che le chiese di avvisare.
L’anziana servente lo fece attendere nella sala che dava direttamente sul piccolo parco..
L’uomo in divisa guardò con curiosità, per ingannare l’attesa, prima della consegna della lettera e della redazione da parte della zarina di una possibile risposta, le porcellane finissime posate su un tavolino basso. Probabilmente erano lì in attesa di accogliere il tea nero che nel samovar stava già iniziando la sua danza scomposta nell’acqua bollente, in attesa di essere bevuto forte e caldo a cacciare i fantasmi dell’inverno.
Quando lei entrò e gli rivolse la parola l’uomo con la blusa e i bottoni dorati fu colto così di sorpresa, sussultò e quasi fece cadere la tazzina che aveva preso in mano e la cui perfezione stava con lenta dolcezza investigando accarezzandone le volute. Quasi che fosse stata pallore di porcellana del volto di una donna, a soddisfare il gioco delle sue dita e del loro contatto e non una tazzina sottile e lucida, col manico sinuoso come le pieghe capricciose di un piccolo orecchio di ragazza.
- Deve consegnarmi qualcosa immagino- fu tutto ciò che la donna disse al messaggero bruscamente quasi non degnandolo di uno sguardo.
- Mi dica cosa sta aspetta adesso e cosa ha da fissarmi così, mi dia la lettera – e mentre l’uomo in divisa apriva i bottoni della blusa e poi della camicia per raggiungere la lettera celata lì sotto lei, con uno scatto di stizza unì le sue mani a quelle del messaggero in quell’opera. Piccata ed impaziente, non potendo fare a meno di sentire il sudore dell’uomo che aveva cominciato a intridere la busta stessa dopo aver bagnato la camicia e reso caldissima e umida la blusa stessa finì col graffiargli il petto inavvertitamente. Nel gesto le unghie di lei lo graffiarono involontariamente e sulla pelle cotta dal calore della cavalcata affiorò e si definì alla vista rapidamente una riga porpora a salirgli come una vecchia ferita cicatrizzata male dal petto verso il collo. Leggermente sollevata e gonfia dove l’unghia aveva segnato, correndo velocemente e quasi inciampandoci, la pelle.
La figlia del principe con la stessa unghia ebbe ragione in un attimo del sigillo del consorte e della colla che aveva chiuso i lembi piegati dei fogli della lettera. La aprì con un misto di frenesia eccitata e di rabbia, davanti all’uomo fermo con la camicia ancora aperta, che non osava toccare quel segno che gli bruciava sulla pelle. Né azzardava un solo movimento.
- Vediamo cosa ha il coraggio di dire adesso – disse incurante dell’uomo che era davanti a lei, fermo sull’attenti, aprendo la lettera, febbricitante.
Fermo, l’uomo, approfittando della concitazione di lei sulla lettera, non riusciva a non guardarla.
Insistentemente.
Cercava di non farsi vedere e ci riuscì anche a lungo probabilmente perché lei era così presa nella lettura della lettera di scuse e spiegazioni, che in ogni parola e scusa sentiva riaprirsi ogni ferita di quei mesi vissuti lontani, lei nella villa e il marito a San Pietroburgo e il suo volto passava come attraversato da lampi dal fuoco dell’incendio alla malinconia più persa. Incurante come se fosse ignare dell’uomo fermo lì davanti a lei in quel momento.
Lui guardò gli occhi di lei che non lo guardavano e vi vide correre una vita, nell’alternarsi di giorni e di notti. Estati e inverni.
Al correre e dipanarsi delle parole. Vide lacrime affiorare e poi ritrarsi, come inghiottite nuovamente da quegli occhi scuri percorsi da mille colori e da mille lampi.
Vide la porcellana bellissima del volto farsi cera bianca e poi porpora più e più volte.
Vide le dita affusolate serrarsi e stendersi, sgualcendo i fogli di carta spessa come fossero un fazzoletto di seta finissima. Le vide affondare le unghie nella carta e poi rilasciarla. Una, due, più volte.
Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare, lei nemmeno l’aveva lasciato libero di ricomporsi e perse persino la coscienza di fissarla.
Lei rilesse più volte alcuni passi, facendo scorrere le pagine una in coda all’altra, poi si accorse dell’uomo che la stava fissando e di come la guardasse.
Vide la blusa e la camicia aperta.
- Chi ti ha autorizzato a fissarmi in questo modo? Chi te lo ha permesso? – le scoppiò con la voce che vibrava nel respiro corto sotto la blusa stretta. Lo guardò.
Il segno rosso che stillava piccole gocce di sangue dove l’unghia si era impigliata nella pelle.
Lei aveva il petto che ansimava come le parole che aveva esploso accorgendosi di lui di colpo. E quell’uomo fermo, a sua disposizione, dopo mesi di esilio suo lì nella villa e di pensieri che trasformavano i mesi in un’unica interminabile notte, lo desiderò.
Desiderò punirlo per il male che il marito le aveva imposto abbandonandola, per il desiderio che nemmeno da sola era riuscita a colmare, per le notti passate a stringersi a se stessa domandandosi inutilmente chi lei stessa fosse.
Si mescolò l’eco del dolore riacceso dalla lettera con il desiderio del piacere così a lungo soffocato e represso. E a loro si unì l’ebbrezza e il desiderio della punizione che stava per infliggere al messaggero per il contenuto della lettera stessa che le facevano, desiderandola, affannare ancor più il respiro e il petto e sussultare il corsetto. E rinascere a bagnarla il desiderio nel suo sesso.
Aveva le vene del collo tese in quella mescola di emozioni, si poteva vedere il sangue pulsare e leggerne il ritmo nel suo collo lungo e snello.
Quando infilò la mano sotto la blusa del messaggero avvicinandola al suo graffio l’uomo ebbe solo un sussulto. Smise di guardarla e non ebbe nessuna reazione a quelle unghie che gli straziavano il petto. Le senti sfiorarlo, poi le sentì giungere fino a mordergli un capezzolo e si piegò sulle gambe trattenendo un gemito.
Se avesse emesso quel gemito forse lei si sarebbe svegliata dal suo sogno assurdo e avrebbe, vergognandosene per il suo pudore atavico, probabilmente smesso. Forse fu per questo che lui non emise suono alcuno e si curvò soltanto sulla mano come per avvolgerla col corpo.
Lei sfilò la mano.
In testa aveva ogni singola parola della lettera a danzare con i pensieri che aveva accumulato nei mesi di vita solitaria nella villa. Rifiutando visite, visitatori e feste per almeno i primi mesi. Chiedendosi se lui se ne sarebbe mai accorto.
Il messaggero aveva lo stesso odore della lettera. Il suo sudore aveva permeato busta e parole.
E se lo sentì sulla mano sfilata dalla blusa e lo sentì sul corpo di lui spingendolo.
Sfilò la corda di velluto pesante che legava all’anello di ottone le tende alla porta finestra che dava sul parco.
Due giri, poi la incrociò due volte e passò un capo nell’anello assicurandolo stretto all’altro.
Lui si trovò legato con i polsi dietro la schiena, all’angolo dello stipite della porta a vetri, con la luce fredda del gennaio sulla neve ghiacciata al suolo che si rifletteva sulle lastre e ne illuminava il profilo.
Lei scorse i fogli una, due volte senza rileggere nulla, uno dopo l’altro, prima di posarli sul tavolo vicino alle tazzine, sgualciti e lacerati in parte. Li stirò con la mano prima di spogliarsi.
Sfilo l’abito nero e la blusa scura, la camicetta dai mille bottoni di osso di conchiglia venuto da chissà quale mare di oriente.
Slegò e sfilò le calze, passò le dita affusolate nei capelli che portava neri e corti alla moda delle donne di Parigi che sfidavano le regole e le norme. Sfiorò il suo stesso corpo che sentì caldo dopo mesi di inverno e sentì il suo proprio odore che non riconobbe quasi, così forte e denso a circondarla. Si avvicinò e sfiorò il messaggero legato che non poteva certo toccarla ma nemmeno aveva possibilità alcuna di ritrarsi. Aveva occhi che lui non riuscì a non fissare, spudorati, piccoli tagli felini carichi di scintille.
Sfiorò e poi strusciò il seno contro la blusa aperta. Il seno della donna era piccolo e nel farlo il loro corpo aderì quasi totalmente. Sentì il sesso di lui sotto i pantaloni grigi dell’uniforme, ne sentì la piega a lato, la forma e la voglia farsi forza. Si sfregò col ventre su quel sesso.
Si macchiò il seno con le gocce del suo sangue, piccole, quasi asciutte e fattesi dense lungo il graffio.
Si allontanò, passò la mano sulle macchie. La leccò lentamente.
Poi porse le dita all’uomo, piano senza chiedere niente, guardandolo in modo che lui non potesse smettere di guardarla. Gli fece leccare le dita porgendogliele in modo che lui dovesse tendersi e forzare i polsi legati per farlo. Godette nel vederlo perdersi in quel modo, e infilò subito dopo quasi di scatto la mano a riprendere il piccolo tormento sotto la blusa. Scostò bruscamente i lembi della camicia aperta e in piedi cominciò davanti a lui a toccarsi. La mano tra le cosce, sollevata sui calcagni in modo quasi osceno per tenerle aperte, le dita a torcersi per entrarle dentro a violarla e lavarsi mentre l’altra mano ad ogni brivido e contrazione che sentiva tra le cosce salirle alle reni, serrava quel capezzolo piccolo di uomo un po’ più forte. Quasi che il piacere in lei le togliesse ogni freno e senso di ciò che stava facendogli. E che stringendolo di più il piacere del toccarsi le aumentasse di intensità e di forza.
Lo sentì gemere e si strinse la mano tra cosce più e più volte, la strinse ad ogni orgasmo, quando il piacere la faceva racchiudere su quel matrimonio di dita e sesso e doveva, ricadendo sui calcagni piegarsi sul suo piacere, e abbandonare la presa del capezzolo di lui inevitabilmente.
Si fece guardare ansimare, gemere, tremare, lo coprì del suo odore, bevve i gemiti che alla morsa di lei nemmeno più tentava di trattenere lui, che non scioglieva più piacere da dolore. Impazziva sotto quelle dita e poteva esploderne da un momento all’altro.
Fu allora che lei si fermò.
Gli carezzò il volto sempre in silenzio.
Nessuna parola l’aveva rotto per tutto il tempo dalla consegna della lettera.
Indugiò nella carezza e l’uomo cercò di raggiungere il profumo della mano con la bocca, lo sentiva forte e ne desiderava il gusto. Lo sciolse.
Poi si avvicinò a baciarlo. Lo spogliò lentamente, frenando i tentativi di lui di aiutarla.
Poi attese che lui la prendesse.
La prese rovesciando le tazzine di porcellana a terra, col ventre sul tavolino e i cocci di ceramica a ferire i piedi a entrambi. La prese con violenza.
Salì in lei senza chiederle permesso con nessuna carezza, bacio, gesto o parole, o segnale che lo preannunciasse. Le macchio la schiena col sangue dei suoi graffi.
Si mosse scomposto, come se avesse un animale dentro a mangiarlo e si sentisse morire se non fosse riuscito a liberarlo. La prese per i fianchi, per il collo che morse.Fece del ricciolo da manico di porcellana dell’orecchio della giovane donna il pasto della lingua, della bocca e dei denti.
Si fermò solo quando esplose a fiotti successivi e senza alcun controllo dentro il ventre.
Lui si fermò e fu lei a muoversi ora, sotto di lui immobile. Una, due, tre, tante volte.
Scivolando avanti e indietro fino a sbattere con le ossa contro le sue ossa per sentirlo ancora dentro e farsi invadere più a fondo da quell’onda che ritornava ad ogni ritornare a fondo della sua corsa.
Poi lui si fece morbido, i muscoli si sciolsero, sembrò farsi acqua calda intorno e sopra di lei, come quando lei si scioglieva, toccandosi da sola. In quella, caldissima e fragrante di aromi, della vasca.
Scivolarono al suolo e lei si rannicchiò ritrovando il ritmo del respiro tra le sue braccia.
Lei chiuse gli occhi e si addormentò quasi all’istante, con l’aria che le faceva sollevare il seno sul suo petto, facendogli un poco intorpidire il braccio su cui giacevano il suo collo e la sua testa..
Lui guardò sul tavolo la lettera che le aveva scritto e portato lì da San Pietroburgo.
Poi guardò lei, più bella ancora di come la ricordasse, e non sentì più alcun peso su quel braccio scivolando anche lui senza un sussulto solo nel sonno. Si addormentò senza rendersi conto del passaggio dalla veglia al sonno.
 
 
 
 
 
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