Mille formiche bianche

 

    

 

 

 

 

 

Riprendi il filo.
Da dove l’hai lasciato a terra, rammendo di parole. Emozioni. Suoni. Gesti.
Ricominci a scrivere.
Riparti da lì, da quell’auto. Da quella donna.
Quei fianchi sotto la camicetta infilata a svanire e ingrottarsi nella gonna. Corta.
Il suo respiro nell’abitacolo caldo, il suo sfilare con gesto morbido quel maglione morbido su cui hai posato le mani in una serie di piccole carezze, il tuo petto abbracciandola, il capo, chinandoti su di lei per baciarla. Lì seduta.
Angora.
Sul sedile posteriore, lei si è voltata per gettarlo lì e lì giace. Alle sue spalle.

Riprendi a scrivere della mano che scivola dal ginocchio su su su a salire e a nascondersi, e più è nascosta e più lei la sente, sotto la gonna. Che tocca e interpreta in fil di dita, e legge cieca il braille di brividi della sua pelle.
La mano. E la sua testa, reclinata indietro. Sul poggiatesta di velluto beige, i capelli.
E gli occhi che si chiudono mentre la mano si fa più oscena e dura, più decisa, trova coraggio. E cresce nelle voglie, animando un esercito di dita.
Lei le sentirà una per una o avrà solo una percezione diffusa di questa offensiva che si scatena intorno all’elastico delle sue mutande? Ne sentirà la marcia indipendente, legate solo dal palmo che ne limita la fuga e le trattiene in un’area circoscritta? O sentirà una macchia calda espandersi, flettersi, avanzare e ritirarsi, allargarsi di olio tiepido, avere mobile confine e mobile disegno sulla coscia?
Dilagare di dita come acqua al pavimento, risalendo lì sotto sulla pelle sino al tessuto teso a circondare le cosce, a celare un taglio che si fa macchia umida anch’esso?

Riprendi il filo e scrivi.
Dell’attimo.
In cui scostato quell’elastico, cedevole, muto, duttile, resistente solo quel poco che basta a soddisfare il tuo desiderio di conquista, arrivano due dita lì. Sulle sue labbra.
Leggi le dita nel suo respiro e invano cerchi nei suoi occhi la risposta. Sono chiusi e per contraltare, contrappasso e necessità vitale invece le si è schiusa la bocca. Le labbra che sembrano vibrare, morbide, disegnate di quel suo leggerissimo rossetto, al vibrare che sentono adesso le tue dita non lì ma molto più sotto.
Nemmeno una parola, le labbra sembrano due lembi di una ferita rossa, immote, umide di saliva perché un attimo prima della resa e del loro rimanere socchiuse lei le ha strette e percorse tagliandole di netto con la lingua.
Fica lucida. Gonfia e rossa a celare lingua umida e denti.

Riprendi il filo.
E poi la marcia, verso il viottolo, che dalla strada di periferia urbana che ti portava a riaccompagnare lei a casa, a lato, si perde in mezzo ai campi. Guidi.
Alle spalle le ultime case strette e mano mano il loro diradarsi, lo scemare e campi sempre grandi e fondi al’orizzonte laterale.
Da un pezzo solo qualche vecchia cascina con assi al posto delle finestre.
Lei sul sedile ha la gonna ancora trascinata e sollevata sulle cosce dal tuo polso, se guardi vedi l’occhio bianco delle sue mutande. Sghembo. Scostato come l’hai lasciato.
La benda immacolata a una ferita che ne esce fuori quasi tutta, lucida, tumida, gonfia.
Le cosce ancora larghe sul sedile, lei non si è ricomposta. La guardi e ti senti crescere la voglia.
Tocchi con le dita umide la leva del cambio e solo allora ti accorgi pienamente del velo caldo sulle dita. Due. Le tue.
L’auto sobbalza sullo sterrato mentre l’auto affonda nel viottolo allontanandosi dalla statale e accenna due curve prima di arrestarsi a lato di un fossato. Vuoto, senz’acqua nell’inverno che non vuole vestirsi ancora del suo freddo.
Alberi di gelso a lato.
Spogli e potati a ombrello abbarbicati alla sponda.
Spegni il motore ma l’abitacolo è così caldo che non sentirete freddo, tolta la tua camicia azzurra e la cravatta e la sua camicetta bianca. Né dopo, quasi completamente nudi in questa stanza senza mobilio, tutta porte e finestre. Al buio che in questa stagione ancora viene presto, nelle giornate corte come una sigaretta senza filtro.
Un lembo della sua camicetta è già da prima fuori dalla gonna, lì davanti.
Mille bottoni piccoli, su fino al seno e poi quasi alla gola, formiche di madreperla.
Che mangerai di gusto con le dita, uno dopo l’altro per spogliarla. Lei.
Che quasi nemmeno conosci.
Lei.
Che ha le labbra ancora schiuse perché tu possa prenderne possesso. Con la lingua.





 

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