Arrivò a casa di lei.
Presto, prima della loro uscita a fare spese.
Stentò come ogni volta a trovare un parcheggio, l’aveva avvisata che stava arrivando e immaginò lei in attesa, eccitata e un po’ nervosa, la sigaretta accesa per dare un qualche controllo di ritmo al cuore e al respiro .
Lei gli aprì il portone, poi lui entrò nell'ascensore, poi arrivò al balcone – sorrise del piccolo giardini pensile di lei – poi fu davanti alla porta socchiusa.
Chiese permesso,entrò. Lei gli chiese di spogliarsi completamente, appena lui fu oltre la soglia, resistendo al desiderio di baciarlo, seduta di fronte a lui, sul divano.
Lui tolse la camicia, i jeans, sfilò scarpe, mutande, si tolse l’orologio e lo posò sul tavolo. Davanti a lei che lo guardava.
A terra posò lo zainetto.
Nella stanza filtrava solo la penombra dagli scuri.
Lui le sarebbe saltato addosso. Lei, a lui, pure.
Lui rimase nudo in piedi e lei seduta.
Non si dissero nulla, loro che si sarebbero inondati di parole, a parte salutarsi, come se si fossero lasciati solo un minuto prima. Lei lo guardò.
Non disse e non chiese.
Lui si avvicinò al divano e le si inginocchiò davanti.
La testa avrebbe potuto da lì affondarla tra le cosce di lei e raggiungere la fica - succhiarla, morderla, baciarla, leccarla, rubarle sapore e odore di voglia che nell’aria si sentiva - in un attimo avrebbe potuto farlo.
Lei avrebbe potuto prendere la testa di lui tra le mani, afferrarla per i capelli e portarla a fare ciò che lei così amava ordinargli di fare e che lui facesse. Nessuno dei due lo fece.
L’aria sembrava farsi solo più calda, umida, odorosa di carne e umori, e tesa.
Lei si voltò verso il lato destro del divano e lo prese.
Lui fermo, le mani, che avrebbero voluto solo lei su cui e in cui perdersi, tenute lungo i fianchi, in ginocchio e in attesa.
Gli cinse il collo con le mani, lei, con calma, senza fretta alcuna.
Perché la fretta, anche quando l’attesa tagliava come lame tutti e due e esasperava la voglia, a loro non apparteneva.
E strinse la fibbia.
Fu con le dita infilate tra il collare e il collo di lui che, chinandosi su di lui, lo tirò a sé, e la medaglietta col nome dello schiavo e della sua padrona, appesa all'anello, dondolò. Sfiorata dalle sue dita.
Gli mangiò solo allora la bocca di baci e la invase con la sua lingua.
Lui duellò di lingua, labbra e denti. Entrambi avrebbero morso le labbra dell’altro a sangue.
Trasformarono il bacio in una interminabile gioco di reciproca tortura che tese ancor di più i loro desideri.
Poi lei gli disse, allontanandolo da sé, con gesto lieve e passandosi la mano sulla bocca, come fanno con la zampa dopo un pasto le leonesse o le pantere.
“Porgimi i polsi” e, mentre li affrancava nei bracciali neri, gli affidò la barra con gli anelli per appenderlo, perché lui la fissasse al soppalco sopra di loro.
Si alzò, mentre lui eseguiva il compito, chiuse gli scuri, accostò la persiana. Poi tornò da lui, avvolta dalla luce che alle spalle di lei filtrava e ne disegnava il corpo in controluce. A lui sembrò che gli occhi di lei brillassero nel buio, anche dopo avrebbe giurato, perché ne era certo, l’aveva visto e ben se lo ricordava, che così fosse stato.
Lui alzò i polsi alla barra, lei li legò, assicurandoli agli anelli ai lati.
Fu allora che lui parlò e la pregò.
“Non ascoltare lamenti, non avere freni”
“Non avere altra guida, remora o rispetto che il tuo desiderio da soddisfare, ti prego, amore”
Lei carezzandogli il viso e il petto, sfiorandogli e poi stringendogli i capezzoli tra le dita, sorrise. Di quel sorriso dolce e impudico e eccitato che lui in lei conosceva e amava, e che fu l’ultima cosa che lui vide.
Prima di essere bendato. Come quella preghiera con cui a lei lui ancora si donava, fu l’ultima che lei gli lasciò dire.
Prima imprigionare e chiudere dietro la pallina di caucciù la sua bocca e la sua voce.
 

 

Racconti erotici